Quando morì Gianni Brera

Claudio Sanfilippo

Quando morì Gianni Brera, la notizia mi arrivò in un contesto che definire “breriano” è dir poco.
Con il mio amico di bicchieri, letture e musica ero nella mia casa sul lago di Garda a passare il fine settimana. Insieme avevamo portato con noi una serie di bottiglie che sarebbero state stappate due settimane dopo per la cena di San Silvestro.
Ne avevamo portate una ventina, tanto per non sbagliare, come sempre.
Il vino, se è buono, è sposo dell’abbondanza.

Erano state acquistate separatamente, nessuno dei due conosceva il contenuto dei cartoni dell’altro.
Sabato mattina, circa ore dodici, arriviamo. Apriamo le scatole e cominciamo a impilare le bottiglie sul tavolone della sala, in parte al camino.
Ammirare venti bottiglie di alto lignaggio che nel volgere di pochi giorni avrebbero incontrato le nostre papille era come stipulare un piccolo patto a termine con il fattore tempo.
Il gusto e la sensazione di potenza di saperle ineluttabilmente nostre faceva il resto.

Intanto commentiamo l’avvenimento cogliendo alcune cose scritte da Brera in un articolo di qualche giorno addietro. Io che al solito ne parlavo con insofferenza per il suo attaccamento alle espressioni difensivistiche della Dea Eupalla e però allo stesso tempo non potevo fare a meno di amarlo per quel particolare carisma che i suoi polpastrelli mi avevano saputo regalare da quando, ragazzino, leggevo la sua prosa su “Il Giorno”, il quotidiano che leggeva mio padre. Fin da bambino sono un inguaribile calciofilo. Milanista.

Il mio amico Marco, invece, di calcio non si interessa, anche se le sue blande simpatie sono per l’Inter. Lui, anticompetitivo e votato alla marineria romantica e quindi, al massimo, allo sport della vela, amava Gianni Brera come me.

– Epperò, queste bottigliette qua al Gioann gli piacerebbero, neh?
– Ah, pensa che bello se fosse qui con noi a tirargli il collo a queste belle bottigliette qua …

Le guardiamo, ci guardiamo. Ridiamo tra le barbe, ci guardiamo ancora: delle dieci bottiglie a testa che ci eravamo portati, sei erano le stesse. Stessa annata, stessa casa, stesso vino. Una roba da non credere. Tra queste ricordo un nebbiolo di Ceretto, un sauvignon di Felluga e un cabernet di Tasca D’Almerita. Una di quelle cose che segnalano la pagina di un libro che non si dimentica mai più.

Accendo il riscaldamento, la casa è fredda, ci vorrà qualche ora per riportarla a più miti temperature, intanto si accende il camino che è bello grosso ma che tira un po’ troppo (lavorando poco, quando lo accendi la voglia è tanta …).

Vabbè, è già ora di stappare, e stappiamo. Diamo aria al nebbiolo, e mettiamo sul tagliere un salame di Varzi irripetuto, e qualche grissino che avevo in credenza.

Accendiamo la televisione, ci guardiamo un telegiornale.

Parte la sigla del tg1, dietro lo speaker appare la faccia del Gioann, ci voltiamo coi bicchieri in mano, alzo il volume, i muscoli della fronte aggrottati: Gianni Brera è morto in un incidente stradale.

Tutto l’acido del nebbiolo ci torna giù per i molari, il vino è un po’ troppo freddo, il salame impoverisce nella luce bianca dell’inverno sul Benaco. Noi siamo come il salame, ci guardiamo e ci sembra che forse la televisione è da spegnere e riaccendere.

Ma com’è, porca schifa, stavamo parlando di Brera, di queste bottiglie, stavamo preparando una gita a Broni da Lino Maga, a prenderci quel barbacarlo imparato tra le sue righe, ma come è possibile, eravamo qui che ci calavamo in gola questo nebbiolo cercando nel vino quella roba là, l’afflato romantico, l’incanto plebeo, fidandoci solo di queste mani, un po’ come faceva lui, e adesso come si fa ?

– Marco, come si fa senza Brera?

Le domande pletoriche, a volte, sono imprescindibili.
Abbiamo continuato a bere fino a notte fonda, la giornata si è fatta via via travasando al meglio, meno sorda al nostro bisogno di sublimare. Abbiamo bevuto bene, come sempre.

Di Brera ci rileggeremo tutto, e ci mancherà ancora di più.
Lo terremo sul comodino, ogni tanto un Arcimatto farà bene al nostro sistema nervoso. Gianni Mura ci ha battezzati “senzabrera” in una intuizione che poteva giungere solo da un cuore sincero che caragnava per la mancanza.

Brera l’inventore palabratico, che ha stanato un Epos immolandosi sull’altare del Grande Fiume, che ha dimostrato che l’arte non va a spasso con null’altro se non la propria umile disposizione all’evento e alle esperienze che la vita ti ha portato dentro.

Maestro del vento al traverso, sapeva cogliere il lato appassionato del proprio intimo colto, senza leccate di culo al lettore e anzi, piuttosto, con alcuni snobistici birignao, peraltro squisiti.

Nel suo pentagramma armonia e melodia non si abbandonano mai, la sua penna è sempre dentro al battito, il controllo è totale quanto la libertà che emerge dal suo raccontare. E rischia, sapendo di poterlo fare e anche quando l’azzardo segna l’orma oltre la linea di confine, va bene uguale, del Gioannbrerafucarlo non si butta via niente … mi torna alla mente una sua discrezione verista e al limite del grottesco della mattanza del maiale.

Gianni Brera

Grande Brera, penna per palati fini e semplici, chiaro e dritto senza paura, che la penna può ben valere un’alabarda!

La melina, il libero, la Dea Eupalla, l’Abatino, Rombo di Tuono, Bonimba, goleada, intramontabile, prestidipedatore, forcing, il Pelasgio, Pinnadoro, Accaccone, Massinissa, i lombardismi, i “se capiss”…

Mille ancora (anzi, millanta, che è ancora sua) le abbaglianti intuizioni gergali che hanno arricchito il linguaggio e la fantasia di chi lo ha letto.

Umberto Eco lo definì “Gadda spiegato ai poveri”, e lui si imbufalì.
Aveva ragione. Eco, forse, non aveva mai letto Brera.
Brera, su Gadda, rispose così: “Lo detesto, è uno scapigliato che non racconta nulla, fa degli arpeggi da cui non escono melodie.”

Qualcuno lo definì razzista per via del suo pervicace orgoglio etnico di padano.
Lasciali dire, Gioann, a questi cacaminuzzoli che non potrebbero permettersi orgoglio alcuno e che millantano il nulla seduti ancora oggi in caldi posticini di giornale o di televisione a propinare lo squallido compitino al salariato grasso della commedia sportiva.

Quelli che le scarpe per giocare al “fòlber” le chiamano “scarpini”, ossignur!!!

Leggetevi piuttosto qualche suo libro, scritto frodando il tempo per ragioni di rispetto per il mestiere e per la paga, da Addio Bicicletta, alla Ballata del Pugile Suonato, fino a Il Mio Vescovo e le Animalesse. Oppure la sua Storia dei Lombardi.
Leggetevi anche La Pacciada, che è un semplice libro di ricette padane scritto col suo amico Veronelli, ma che contiene una sua prefazione assolutamente imperdibile.
Leggete l’Arcimatto, oppure Gioannfucarlo, volume curato dal figlio Paolo e da Claudio Rinaldi, che contiene una toccante prefazione di Bruno Pizzul.

Brera e i toscani, Brera e il vino, Brera e la pipa, Brera e l’whisky, Brera e la caccia, Brera e la grappa.

La sua prosa, manco a dirlo, è vinosa, fumosa, commovente, fantasiosa, iperbolica, ludica, virile. Anche se pare frettolosamente dimenticato il tempo gli darà ragione, come capita ai veri fuoriclasse, perché Brera trasmette la felicità di scrivere.

Oggi mi viene da chiudere con una frase che lui, con diafana leggerezza in punta di farfalla, soleva dedicare agli amici che se ne andavano: “Che ti sia lieve la terra”.

Sì, Gioann: che ti sia lieve la terra.

 

 

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