“Sdegno il verso che suona e che non crea”. Appunti a margine di un verso del Foscolo

di Michele Bordoni

I versi che intitolano questo tentativo di riflessione provengono da un’opera che, come è ben noto, è rimasta incompiuta. Sembra significativo che Le Grazie, poema finalizzato alla celebrazione evocativa della quintessenza dell’arte resti impigliato nello sforzo di dare legge e corpo a qualcosa (la poesia) che ha solo se stessa per dimostrarsi. Se Foscolo resta ai nastri di partenza quando si tratta di concettualizzare – seppur simbolicamente, con l’apporto del mito – la poesia è, questo, conseguenza del fatto che essa sia destinata a fare i conti con quanto di più vecchio ci sia al mondo, ossia il proprio nome. È fin troppo risaputo che “poesia” derivi da poiein, “fare”, così come è ben conosciuta la derivazione di “dramma” da dran, “azione”. Queste due parole greche, lungi dall’ipostatizzare qualcosa al di sotto del loro nome, richiamano l’essenza della loro costituzione facendola equivalere ad un’attività che è pura pratica, gestualità che resta legata al suo corpo ed al suo peso. Poesia come pratica allora, e nulla più di questo. Sorprende che, dalla grecità a Foscolo e fino ai nostri giorni, non si sia potuti avanzare un minimo da questa definizione: forse perché essa non è una definizione: forse perché più oltre di così la poesia, calata nella gestualità del reale, non dimentica della sua contingenza né dell’essere legata ad una verità che è un hic et nunc (per dirla con Yves Bonnefoy) e non il mallo, la mandorla di un manipolo di essenze (per dirla invece con Mallarmè) non deve veramente andare. Tra la pratica della poesia e la sua definizione infatti si compie un salto, sempre dannoso. Tra affermare che la poesia è ciò che è, sfiorando la tautologia, e affermare che essa è la patria dell’essenza e dell’Essere si rischia di finire dentro un baratro che risucchia la poesia e la sua forza.

Chi scrive quel baratro l’ha sperimentato e l’ha visto; nulla di preoccupante ovviamente, per quanto a volte anche un autobus (perché esso è veramente reale) possa essere provvisto di una pericolosità emotiva assai superiore alle aspettative. Specie se nell’autobus chi scrive assiste ad un furioso litigio fra l’autista e un passeggero abitualmente refrattario dal pagamento del biglietto, fra questi e il coro tutt’altro che impartecipe degli altri viaggiatori. Specie se il biglietto costa un’inezia e per questo nonnulla si inizia una gara di insulti e di grida fra gente umana, semplice. Specie se questa scena di umanità “al grado zero” si presenta con la sua disarmante semplicità dopo un’intera giornata passata a condividere con altri poeti e scrittori le proprie idee sulla poesia, giornata il cui leitmotiv è stato quello di: “La poesia è la parola scavata nel silenzio in cui si ascolta l’essenza e questa si fa voce spezzata nella condivisione”. Questa frase “suona”, come direbbe Foscolo, ma si trova nell’imbarazzo di una povertà che è impotenza nei confronti di quello che sta succedendo su un autobus. Quella poesia concorde alla sua definizione non “crea” nulla, nessuno la avverte. Non serve a niente. Non che la poesia debba servire ad uno scopo chiaro…ma qui si tratta di impotenza nei confronti del reale e della parola che pure, mi dicevo, anche in questo aspetto barbaro e spiacevole meritano un posto tra tutto quello che è il “dicibile”. Se la poesia è questo spazio del dicibile, perché escludere quanto di più umano possa esserci e andarsi a rintanare nel mondo delle essenze? Perché quell’impotenza si tramuta in snobismo e allontanamento? Mi veniva in mente una frase di Paul Valery: “Non ci ubriachiamo mica con le etichette del vino”. Traduco: una poesia che mi priva del piacere-dolore del reale rinchiudendolo in categorie che annullano l’impatto di questo, di questo qui e ora, che poesia è? Che umanità si nasconde in essa?

Rainer Maria Rilke

L’autobus poi, consumato il litigio, è partito e nel viaggio di ritorno ho potuto rimeditare alcune parole che Rilke scrisse a Lou Andreas Salomè sulla scia della recente conoscenza di August Rodin. Sono parole del 1903: “In qualche modo devo giungere anch’io a fare cose, non plastiche, scritte – realtà che scaturiscono dall’arte”[1]. Fare cose, trovare la loro realisation per mezzo di un estenuante lavoro. Lavoro che, nell’epistolario rilkiano, torna ad essere il metronomo principale delle lettere nel 1907, stavolta affiancato al nome di Cezanne, con tutta la valenza artigiana nascosta nel poiein. Questo è un lavoro che non sopporta eccezioni, un atto di devozione che per il quale ci si rende quasi schiavi, costretti ad aderire alla plasticità tattile delle cose, come un “vecchio cane di quel lavoro che lo chiama e lo chiama, e che lo batte ce che gli fa patire la fame”[2]. Il lavoro, la pratica che queste lettere suggeriscono è una pratica dello sguardo, un Anschauen, un guardare dentro gli oggetti e la realtà che possa finalmente risolvere la contraddizione dialettica tra intenzione (la precipua tonalità delle cose che le rende uniche e irripetibili) e intonazione (la resa che, attraverso la voce del poeta, dalle cose torna alle cose). Il poeta produce cose; le trova nella realtà, le accoglie e le restituisce nella poesia. Nessuna trasformazione metafisica, nessuna sublimazione, puro lavoro di lima nei propri confronti. La poesia è una pratica di dizione, non la teorizzazione di una parola “innamorata” che concettualizzi il poiein rendendolo la messa in pratica (non la pratica) di un protocollo. È osservando Cezanne che Rilke nota come:

“ci si accorge anche meglio, di volta in volta, di come fosse necessario andare oltre l’amore […] Si dipingeva : questa è la cosa che amo, invece di dipingere: ecco la cosa”[3].

Ecce res. Questo basterebbe, rendere agli occhi, come per la prima volta, la realtà nella sua spietata faccia di realtà, senza possibilità di scelta, con immensa onestà nel gesto di accogliere. La poesia è una pratica di resistenza, il grido con cui si afferma che qualcosa in se è qui presente, qui, ora, tangibilmente, come questo litigio, questa tensione, questo senso di impotenza in un autobus serale. E se è vero che tutto, nell’imminenza e nel rischio della perdita, sembri acquisire maggiore evidenza, la poesia è la voce di quella evidenza:

Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare[4].

La poesia mi pare più fraterna, più umana, nella sua difesa da una definizione. Forse anche più sana, esercizio che sospende la presa e che si limita ad indicare che questo è quello che viviamo, questo è quel che è. Come per l’amore, la poesia non si dice. Si fa.

 

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[1]Rainer Maria Rilke, Lettere su Cezanne, Passigli, Firenze, 2001, p.23
[2]Ivi, p. 58.
[3]Ivi, p. 67
[4]Ivi, p. 26

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