LA CIMINIERA. Un racconto di Alvaro Valentini

Giorgio Morandi, “Paesaggio con la ciminiera” – Acquaforte su zinco (1926)

Da bambino, chissà cosa avrei dato per poter salire in vetta alla ciminiera; ma non mi hanno mai lasciato arrampicare fin lassù.
Sapevo che, all’interno, essa aveva una scala di ferro e che era larga tanto che un uomo grosso ci passasse comodamente.
– Che hai visto di lassù? – chiedevo agli operai che vi salivano.
– E che vuoi che abbia visto? – rispondevano. – Quello che c’è qui lo vedi dall’alto e ti sembra più piccolo.
– E la valle e il fiume si vedono? – chiedevo ancora.
Mi rispondevano che non ci avevano badato.
– La prossima volta te lo sapremo dire, – promettevano e non mantenevano mai.
Io ero persuaso che fosse una cosa meravigliosa guardare il mondo dall’alto della ciminiera; ed ero persuaso, del resto, che da lassù si vedesse il fiume e la valle. Oggi mi riesce difficile spiegare tanto interesse per la valle e il fiume e non ricordo perfettamente i pensieri di allora; li sento però, e mi pare che volessero dir questo: dall’alto della ciminiera io avrei visto tutto quello che si svolgeva nella fornace; i carrelli andare, gli scarriolanti portare mattoni crudi e cotti, i cementisti entrare e uscire dai capannoni rossi e i fuochisti neri e polverosi arrivare a lavarsi fino alla cisterna.
Poter vedere tutte queste cose, nello stesso momento, senza dover correre di qua e di là perdendone una per contemplarne un’altra, doveva essere (pensavo) una grazia meravigliosa.
Ma più bello ancora doveva sembrare lo spettacolo della valle. La fornace era al culmine di una collina che sprofondava, a sud, fino al fiume; gli autocarri che venivano a scaricare carbone o a caricare laterizi, salivano dal fiume lungo una strada che partiva dalla costa ed era prima il loro rumore che la loro apparizione ad annunciarli.
A me sarebbe piaciuto, tanto, vedere da una parte gli uomini che ammucchiavano mattoni uno per uno, e, piano, metro per metro, salendo dal fiume per caricarli. E poi uomini ed autocarri unirsi, ma ordinatamente, quasi per un incontro calcolato.
Invece gli autocarri, scoprendosi all’ultima curva, sembravano arrivare inaspettati; e la gioia di salire sulla ciminiera non mi veniva mai concessa.

Per questo mi ero costruita una ciminiera ideale; e quando, alla sera, riassumendo tutto quel che avevo visto alla fornace ne tiravo le somme, amavo credere di averlo osservato in un lampo, coe se fosse stato dall’alto del fumaiolo, in un osservatorio che riunisse lo spazio e il tempo in un prodigioso pinnacolo.
Ma da quel pinnacolo rivedere la morte di Mirella è certamente più penoso che nella realtà, perché l’autocarro avanza, avanza, e Mirella si avvicina al cancello e l’autocarro e lei si incontrano sul pilone e l’autocarro la schiaccia…
Dio, com’è penoso, tutte le volte, guardare Mirella che non arriva né prima né dopo al pilone, ma giusto in tempo per farsi schiacciare dall’autocarro!
Indossava un grembiulino a quadretti celesti e bianchi; come l’avevo vista il primo giorno, poco dopo arrivata.
Vicino alla fornace c’era una scuola; e la zia di Mirella c’insegnava e Mirella era venuta a trovare la zia.
Le capannelle della fornace arrivavano fin sotto la scuola. Lei stava alla finestra; io stavo a raccogliere fiori o fare qualcosa del genere lì sotto, e non l’avevo notata.
– Ti piacciono i fiori? – lei chiese.
Aveva una vocina dolce e vivace.
– Sì, – dissi io sorpreso. – Ma mi piacciono anche i ranocchi, – aggiunsi ostentando disinvoltura.
– I ranocchi, – rise lei. – E che c’entrano i ranocchi?
– Cerco i fiori per gettarli ai ranocchi. I ranocchi amano molto i fiori.
Mirella scese, io l’aiutai ad infilarsi in uno squarcio della rete metallica e così passò dalla mia parte.
– Là sono i ranocchi, – la informai conducendola verso la cisterna.
– Perché i ranocchi amano i fiori? – chiese.
Non lo sapevo. Sapvo solo che i ranocchi non si spaventavano quando gettavo loro fiori e si spaventavano molto se scagliavo sassi. Concludevo che amavano molto i fiori. Ero bambino, avevo otto anni e, per uno strano pudore, mi vergognavo di farmi sorprendere da qualcuno mentre, fermo, contemplavo incantato i ranocchi. Così gettavo fiori nella cisterna.
Quando mio nonno mi vide con Mirella, mi si accostò dicendomi:
– Se la fai piangere, te le suono. – È la nipote della maestra, – dissi io. – Va bene, ma se la fai piangere, te le suono.

Evidentemente alla fornace godevo di una cattiva fama. Bastava che un’ombra spaventasse all’improvviso gli scarriolanti sotto le gallerie o che si spegnesse una lampada o che un maiale dai campi vicini finisse infuriato sotto la mattoniera, e la colpa era sempre mia.
Veramente la colpa era mia, ma mi dispiaceva che sapessero scoprirmi.
In quella accanita guerriglia solo una cosa avevo guadagnato; ed era che se mi vedevano accanto alla cisterna, intento a contemplare i ranocchi, nessuno degli operai mi scacciava o mi molestava, ma tutti giravano al largo e mi lasciavano intera la signoria di quel luogo. E accanto alla cisterna ero felice.
– È meglio non molestare quel demonio, – dicevano.

Dopo un giorno o due Mirella mi chiese:
– È vero che sei un ragazzo cattivo?
– Che vuol dire “cattivo”? – chiesi io irritato.
– Cattivo vuol dire cattivo, – conclude lei. – Io, però, penso che tu sia buono.
– Cattivi sono gli operai. Vogliono impaurirmi raccontando al nonno che prendo pesci dalla cisterna o che adopero mattoni freschi per fare le figurine di argilla o che salgo di nascosto sopra i carrelli della cava… se loro non la smettono, io non smetto di dar loro fastidio, di spaventarli quando capita…
– E come li fai spaventare? – chiese incuriosita.
Le raccontai le mie imprese. Rise a lungo.
Adesso, per me, è molto difficile descrivere quel suo riso. Ma ricordo che fu come una ruota in cui i colori degli operai, dei fuochisti, dei carrelli, del maiale e della ciminiera, girando girando, si tramutavano in un limpido azzurro, come gli occhi di Mirella. Ma gli occhi di Mirella avevano in mezzo il punto nero della pupilla.
– Ti piacerebbe avere un ranocchio? – le chiesi.
E gliene ofrii uno, piccolissimo, che le tremava sul palmo della mano.
– Posso tenerlo? – domandò.
– Se vuoi, – le dissi. – Ma se la mamma lo attende e piange perché  lui è lontano, penso che bisognerebbe tererlo appena un po’ e poi lasciarlo andare. Tu, quando tornerai dalla mamma?
– Presto, – disse. – Lunedì che viene.
E dopo, lasciando il ranocchio tra l’erba, proprio sulla sponda della cisterna, aggiunse:
– Mia zia mi ha detto, ieri, che chi non fa male alle bestie è buono. Tu non fai male ai ranocchi, ma fai spaventare gli operai.
– I ranocchi sono piccoli, gli operai sono grandi.
– Allora sei buono davvero.
– Non so. Chiedi a tua zia se uno che molesta i maiali è buono o cattivo. I maiali grandi, s’intende…
Mirella rise ancora.

Tutte le volte che veniva a cercarmi, andavamo accanto alla cisterna. Era un posto tranquillo. Le promettevo che, prima o dopo, l’avrei condotta lungo il ruscello che dalla cisterna scendeva dietro la collina giù giù nella valle. Le dicevo che, se un giorno avessero ripulito la cisterna, avremmo visto le case dei ranocchi. E mi provavo anche a descriverle le scene di quando raccoglievano le olive, lì intorno, o mietevano il grano o vendemmiavano.
– Ma noi non siamo lontani dalla città, – concludevo. – Se vogliamo, saliamo u un autocarro che parte e ci andiamo. Però qui abbiamo l’uva, il grano, gli uccelli.
– Noi abbiamo un albero nel cortile, tutto pieno di uccelli.
– Qui, d’inverno, con la neve, prendiamo quanti uccelli vogliamo.
Mi aiutava volentieri a cogliere fiori.
A me piacevano immensamente. Ne avevamo di gialli, poco lontani dalla cisterna, ed ero contento di poterli raccogliere ogni giorno.
Nelle ore in cui non c’era Mirella, credevo di dover alternare alla calma periodi turbolenti, perché immaginavo che gli operai,  se io fossi diventato troppo buono, non mi avrebbero lasciato godere in pace la cisterna. Poi, quando arrivava Mirella, ridiventavo buono per non deluderla, per non contrariarla.
– Ci voleva quella bambina per calmarlo, – dicevano infatti.

La cisterna era incantevole. I fiori intorno e una siepe che la recingeva. C’erano quattro olivi poco distanti e un pozzo vuoto dentro cui mi piaceva gridare parole che rimbombavano. I rumori della fornace arrivavano attutiti fin là, il suono degli autocarri arrivava ora sì ed ora no. La brezza costante che scuoteva le erbe alte recava odor di trifoglio; e i tonfi dei ranocchi erano più leggeri del ronzio delle libellule.
Mirella, ancora oggi, quando ripenso a lei, sbuca dal viottolo che costeggia il gruppo delle capanne, tra una siepe di more e il deposito degli storini, e arriva sull’orlo della cisterna e getta briciole ai ranocchi.
– Io credevo che fossero brutti, i ranocchi, – dice.
Poi scuote le erbe intorno a sé e dice:
– Vediamo chi trova il fiore giallo più grosso.
Ma non si avvicina, da principio, al grande cancello della fornace che ha due grossi piloni in muratura e si apre con quattro snodi.
Finché Mirella coglie i fiori che sono attorno alla cisterna, tutto è sereno nel ricordo. Ma quando qualche giore grande occhieggia al di là, verso il cancello, io vorrei che non lo vedesse…

Non so come sia accaduto, non so se poteva o non poteva salvarsi. Ero lontano, sotto una galleria. So soltanto che era venuta a cercarmi, quella volta, e quando fu davanti al pilone sinitro l’autocarro le passò accosto, troppo accosto.
Perciò, dalla mia ciminiera ideale guardo gli uomini che ammucchiano mattoni e verso la valle scopro il camion che viene a caricarli, trovo sempre sul cancello Mirella che arriva né troppo presto né troppo tardi, ma nel momento preciso per farsi schiacciare, senza che la mia memoria possa spostare di un centimetro il suo corpo, riportarlo, almeno una volta, una sola volta definitiva, verso la cisterna dove i fiori gialli ricoprono tutto il terreno.

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Alvaro Valentini

Laureatosi nel 1946 all’Università di Roma con una tesi su Vincenzo Cardarelli e Giuseppe Ungaretti come relatore,  e docente a sua volta di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Macerata, Alvaro Valentini era nato a Fermo nel 1923, continuandovi a vivere fino alla scomparsa avvenuta nel 1991.  Esperto dell’opera di Eugenio Montale, cui dedicò numerose opere di saggistica, fu anche studioso di Leopardi, Dante, Gozzano e Matacotta. Poeta, narratore e critico, traduttore de Il meriggio di un fauno di Mallarmé per le “Edizioni di Nuvole” di Lanciano nel 1969,  tra le sue opere si ricordano: per la poesia, Notizie del figlio (1960), Una storia d’amore (1961) e Perlocuzioni (1983). Per la narrativa, Il coniglio e lo stregone (1959), La ciminiera (1960), La luna in diligenza (1985), L’ombra (1993). Per la saggistica, Semantica dei poeti. Ungaretti e Montale (Bulzoni, 1970), La rima, la forma, la struttura (Bulzoni, 1971), Il Leopardismo di Franco Matacotta in “Franco Matacotta. Atti del Convegno di Studi” (Bergamo, 1987).   

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