IN BOTTEGA – Vincenzo Frungillo

di Luciano Neri

“Intorno alla poesia di Vincenzo Frungillo: da Ogni cinque bracciate a Le pause della serie evolutiva

In Ogni cinque bracciate, uscito nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa nel 2009, Vincenzo Frungillo si confrontava con alcune delle esperienze di scrittura poematica più importanti del Secondo Novecento. Non a caso il testo, insolito per la recente poesia italiana, aveva attirato l’attenzione di importanti interpreti, tra cui Elio Pagliarani, come del resto andava chiarendo l’ampia trattazione che lo stesso autore dedicava al genere poema con interventi teorici a partire dal 2008 su riviste, blog, volumi collettanei (e poi insieme  riordinati volume di saggi Il luogo delle forze, edito da Carteggi letterari nel 2017 – nel seguente intervento, da ora in poi, LF). Testo di genere che, misurandosi con una illustre tradizione, aveva l’ambizione di cogliere la relazione “tra io e mondo (…), i segni rilevanti di un’esperienza personale e collettiva” (LF, p. 63).  D’altronde la vicenda che nel poema si narra riguardava quella delle nuotatrici della DDR degli anni ’70 e ’80, protagoniste di una stagione sportiva costellata di successi al cospetto di un mondo, quello del Patto di Varsavia, a pochi anni dalla dissoluzione dell’URSS. Le Olimpiadi dei primati sarebbero state quelle del 1980 a Mosca, del boicotaggio dei paesi del Patto Atlantico. Ma le verità di quei successi sarebbero poi emerse da quel mondo rinserrato, mostrando i segni dei propri fantasmi attraverso il corpo trasformato delle atlete, mutato in qualcos’altro e, dopo la caduta del muro, simbolo del disfacimento. Eroine prima e anti-eroine dopo, diventavano così le figure allegoriche di un sistema che, dopo più di mezzo secolo di dominio su circa la metà del mondo, andava implodendo per lasciare spazio a un avvenire pieno di incertezze, e attraverso le quali l’autore disvelava il significato esistenziale delle vittime dall’interno di una metafisica del potere totalitario. Esse allora erano vittime tragiche due volte di un sistema ambivalente: come oggetti alla mercé di una “nomenklatura” che mostrava la propria affermazione avvalendosi di atlete costruite in laboratorio per sfidare ogni limite quali macchine infallibili; d’altra parte come segni di un trauma profondo, maschere dolenti di un mondo disumano. La scrittura del poeta si proiettava così nelle pieghe di quel vero/falso della storia, nelle pieghe di quei corpi sacrificati quali simbolo di una frattura dell’epoca contemporanea, quella dell’èra atomica, unendo storia e poesia, narrazione e forma, scavando nelle “fonti dell’agire umano e delle forze umane”, per “spiegare come si è arrivati a ciò che esiste” (E. J. Leed).

Si legga, ad esempio, la Sequenza IV del Canto I “Il corpo di Ute” (OCB, p. 30): (…) lei lo fa per ricordo,/ per dire a se stessa che l’aspetto/ d’ogni cosa è solo un accordo/ di scienziati e raminghi architetti,/ che dietro la realtà s’annidano sospetti.// Lei osserva quel disegno/ e si sente fuori posto,/ mai coincidente con quel segno,/ avverte il corpo come se fosse discosto,/ figlio di quel taglio, sente l’impegno/ di tenerlo nascosto,/ (…).

Sacrificio e violazione della natura e della libertà attraverso il governo dell’uomo, da intendersi quale dispositivo di cui poter disporre secondo la regia di una manipolazione strategica, nel caso di cui si argomenta quella dei gerarchi, dei medici e degli scienziati. L’autore ne approfondisce gli elementi del potere in gioco: le vite innanzitutto, e i limiti del sapere, che nel poema riguardano i limiti performativi del corpo delle protagoniste, limiti  alle soglie dell’umano, i cui tratti trasfigurati sono pari a quelli  delle  donne-pesce, figure arcaiche e archetipiche, forse originate dal rimosso e attraverso una strategia violenta ricondotte ad esso. Ma l’irrazionalità bio-medica che ne scaturisce, in nome della ragione della positività, come direbbe Jean Hyppolite,  quantifica l’incrocio delle relazioni di potere in seno alle vite, dal momento che in gioco, nel governo degli uomini, vengono a implicarsi i sentimenti impressi nelle anime rispetto a una regia di ordine e sottomissione, di comando e obbedienza: di adattamento a un potere che comprende, nelle vite, credenze, regole, decisioni, discorsi, linguaggio. Cioè tutto.

L’autore si misura dunque con il non-detto e con il non-visto riesumando i battiti di quei respiri durante le bracciate e allegorizza la condizione esistenziale di soggetti vicini alle figure mitiche dell’acqua, indagando la sovrapposizione di natura e artificio, fin nelle pieghe intime del loro sentire. Mette in atto una profanazione rispetto al sacrario dei poteri totalitari, riportando alla luce ciò che il sospetto e la paura depredavano all’innocenza dei sacrificati. Rende giustizia contro ciò che può realizzare “una pura attività di governo senza alcun fondamento nell’essere”, come afferma G. Agamben.

Come in altri suoi libri (oltre al poema sopracitato si guardi al monologo Il cane di Pavlov, Edizioni d’If  2013, alla drammaturgia Spinalonga, Zona 2016, e al romanzo Un nome in meno, Ensemble 2019) anche ne Le pause della serie evolutiva (Oédipus, 2016, collana Croma K diretta da Ivan Schiavone – da ora in poi PSE) l’autore tematizza, nel rapporto tra uomo e storia, ma qui spingendosi ben oltre, quale sia l’impatto della forza negatrice, fisica e metafisica, nella lotta dei viventi rispetto alle leggi naturali di evoluzione delle specie come adattamento del più forte. In questa “meccanica pesante”, dagli ingranaggi impietosi, sono ancora i soggetti sbalzati tra natura e cultura, e ancora una volta l’occhio del poeta si insinua in quelle pause dove una fine sembra prossima. Come evidenzia il terzo testo (pp. 15-16) tratto dalla sezione “Meccanica pesante”: “Bisognerebbe scrivere un galateo dei silenzi,/ sottolineare che ce ne sono diversi,/ dai più bassi e volgari ai più alti e religiosi,/ che i due estremi si toccano, si tengono insieme/ che in questa tangenza rientra ogni nostra forma./ (…) // In questo meccanismo, se una parte eccede sull’altra, / ci sarà un rumore di fondo come di cinghia/ che esce dalla sua puleggia, ci sarà un’eco/ per tutta la specie. Capisco allora la sfida/ di chi accetta la distonia, perché nel corpo,/ ma anche in cielo, nello spazio universo,/ all’azione risponde sempre una reazione/ contraria e inversa (…). Pur addomesticando nel corso della storia la propria animalità a discapito della propria umanità, fino al punto di scinderle in sé e da se stesso, l’uomo si trova in una crepa tra le epoche, quando un mondo sembra lasciare spazio a un altro mondo. Vi si ritrova ogni volta, anzi, come di fronte a un’altra ombra,  dove forse risiede la natura che gli ha dato forma, ma che ancora gli sfugge, nell’illusione ultima che possa essere afferrata. E’ questa l’ombra gigantesca che si sposta ogni volta più in là e che abbaglia l’uomo solo per la coincidenza di essere riuscito a intravederla. Qui il poeta insinua il suo sguardo, insieme contemporaneo e  anacronistico, ponendo l’attenzione sulle rimozioni delle epoche rispetto a una lotta spietata, che separa gli uomini in classi senza poter più distinguere la barbarie dalla ricerca vera e propria della loro essenza. Osservando la violenza generata in seno a un tale ordine, la relazione tra bios e storia esplode. E’ un’esplosione abnorme e silenziosa, di cui ogni volta rimane un’eco, un rumore perduto negli ingranaggi del motore eterno, che alla fine accomuna gli uomini nelle loro solitudini. In un tale confronto a volte può accadere che sia la natura, per puro gioco del caso, a indicare la possibilità di un nuovo ordine attraverso le sue manifestazioni di potenza, come evidenzia in esergo O. Mandel’stam, poeta caro all’autore: “Lamarck sente le frane tra le classi. Sono gli intervalli dell’ordine evolutivo. I vuoti si spalancano ai nostri occhi. Sente le sincopi e le pause della serie evolutiva. Intuisce la verità e si smarrisce sgomento per l’assenza di fatti e materiali che la confermino”. E pone lo sguardo tra le fini e gli inizi per cui, nella lotta evolutiva, si condensano le esistenze nella storia e per le quali all’uomo non resta che testimoniare, spostandosi lungo un asse che prima o poi si sfasa e si interrompe dilatando una frattura. “Questo mi spetta./ S’arresta la linea del tempo,/ la sua grana sottile si scioglie, m’accoglie.” (PSE, p. 70).

Nel vuoto di queste fratture, e fino al loro limite estremo, quello che avvicina una fine a un inizio, si apre la possibilità della parola poetica. E in questo tempo che sembra finire confluisce tutto il resto, anche la fine stessa dei paradigmi conoscitivi sui quali l’uomo ripone le proprie certezze.

“ (…). Una volta Celan/ chiese al maestro l’ultima parola. // Heidegger rimase scosso da tanta innocenza./ Ripeto la formula, una semplice equazione:/ non si afferra ciò che ci precede./ E allora si pone sulla bilancia la propria vita,/ e la propria morte, chi tenga in equilibrio il tutto/ non si conosce. La chiamo meccanica pesante/ questo stare fermi a guardare il sistema di leve/ in cui siamo entrati senza far rumore”. (PSE, p. 16).

Da queste premesse filosofiche ha inizio il pellegrinaggio, che procede come un nastro che si riavvolge fino a un’origine, fino alle “terre straniere” di questa apertura scaturita dalla fine. E lo accompagna per tutto il libro uno scavo, che conduce il lettore a ciò che è più prossimo all’origine, con il presente che ne diviene la via d’accesso,  la “via maestra”, assumendo la forma di un’archeologia. In queste pause che diventano scavo si condensano i tempi storici di un eterno presente (tutti i personaggi, compreso il coro della sezione “Stephan”, parlano in un presente entro un infinito, i tempi verbali dominanti nel libro). E stazione dopo stazione fino alla “sparizione” si giunge attraverso luoghi quali “Il porto di Baia”, e tramite personaggi come “Lucrezio”, “Stephan”, “Epaminonda”, a cui viene delegata l’enunciazione. E si tratta di luoghi e personaggi non casuali per la costruzione macrotestuale, alcuni sono vicini alla biografia dell’autore, altri colti da un evento naturale  straordinario, altri ancora rappresentano luoghi simbolici: 1) Una città sommersa, da cui Plinio il Vecchio registra l’eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei;  2) la distruzione del giardino del maestro Epicuro per mano di Memmio, allievo di Lucrezio;  3) la Crociata dei fanciulli intesa come tentativo fuorviato verso il luogo per eccellenza della cristianità, la Terrasanta; 4) Epaminonda a Spinalonga, inteso quale luogo dell’esclusione (lebbrosario) e della desolazione. Si tratta di eventi unici nella ripetizione del flusso temporale che ci indicano la prospettiva dei soggetti dell’enunciazione, ai quali l’autore si affida come “personae”.

Questo perché il disvelamento si compie nei luoghi e nel tempo della storia e il suo attraversamento può avvenire a diversi gradi per la ricerca del senso delle cose, anche quando esse sembrano irrimediabilmente perdute e inaccessibili. E sembrerebbe in tal modo non esserci possibilità di passaggio se non si considerasse un futuro che è alle spalle e  un passato che ci precede. Questa apertura tiene concentrati i personaggi nel movimento delle loro istanze, come guardiani e sentinelle che testimoniano di una porta che si apre e invita ad arrestarsi, e dove si raccorda un tempo solo: il presente nel passato e nel futuro. Siamo in una dimensione dialogica dello scambio tra poesia e narrazione, anche quando il momento del passaggio prevede l’uso della forma chiusa nell’apparenza tipografica, ma irregolare nella metrica: il sonetto (e sull’importanza della forma poetica contro la dispersione si rimanda ancora alla lettura del summenzionato FL, pp. 16-17). Nel “Porto di Baia” si passa da un noi a un tu e a un soggetto impersonale, che nel testo non si qualifica, a indicazione di una prospettiva alternata, dialogica. In Lucrezio, l’io-personaggio si manifesta a testo inoltrato, in “Stephan” la voce narrante diventa coro, in “Epaminonda” il verso si trasforma nel lamento da una terra desolata ai confini del mondo e del linguaggio. Cosa significa questa dislocazione smarrita, frammentata, dei soggetti enuncianti? Intanto che siamo fuori da una soggettività lirica tradizionalmente intesa, punto primo. Punto secondo che una narrazione allegorica va a sostituirsi a un’azione realistica e ricollocata storicamente tramite gli agenti di un passaggio tra le epoche. Punto tre, che il dettato poetico, orientato da personaggi nell’erranza di uno spazio/ tempo storico, travalica la propria instabilità dispersiva giungendo, nella libera vastità di uno spazio/tempo ri-aperto, come un sopralluogo che si misura sulle rovine. E pertanto l’autore ha il pregio di interrogarsi entro quale spazio comune l’uomo sia destinato ad abitare, attraverso una scrittura sapiente e coraggiosa di  chi ogni volta risponde all’appello della poesia, ricercando attraverso l’opera la verità.

 

Rivolgiamo alcune domande all’autore per approfondire alcuni aspetti della sua opera poetica:

Luciano Neri – Come definiresti la tua formazione di scrittore e poeta?
Vincenzo Frungillo – Da adolescente pensavo che la mia formazione di studi dovesse assecondare le mie aspirazioni di autore, la mia ingenuità ha voluto che mi avviassi ad un lungo apprendistato con lo studio della filosofia, dell’estetica e della letteratura, successivamente ho approfondito anche lo studio della storia. Non è un caso che i miei primi interlocutori, quando la pratica poetica era qualcosa del tutto privata e solitaria, fossero filosofi che si occupavano anche di poesia, mi riferisco al mio docente di filosofia del liceo, Pasquale Sica, e al filosofo Eugenio Mazzarella con il quale sono tuttora in contatto. Questo dato è forse già indicativo del fatto che per me la scrittura poetica, quella letteraria in genere, avesse fin da ragazzo un legame stretto con il pensiero e la speculazione. Ancora oggi sono convinto che non esista poesia che non sia di pensiero. A questa prima formazione si è affiancata naturalmente lo studio delle forme poetiche. Un certo peso in questo senso l’ha avuta la frequentazione letteraria e personale di autori che sperimentavano le forme chiuse negli anni Novanta o di autori che davano comunque un’importanza fondamentale alla resa formale dei loro testi. Ai tempi dell’Università leggevo con attenzione i testi di Gabriele Frasca e Giuliano Mesa con i suoi Quattro quaderni. In quegli anni stavo pubblicando i miei primi testi su rivista e un ulteriore passo in avanti nella mia formazione è stato possibile grazie alla conoscenza di interlocutori di eccezione come Milo De Angelis ed Elio Pagliarani.

LR – Nei tuoi libri di poesia, come nelle opere per il teatro e nel romanzo d’esordio Un nome in meno, si evidenzia in particolare il tema del rapporto tra uomo e potere, nei suoi differenti paradigmi, sul quale si è incentrata l’attenzione dei maggiori filosofi del’900. Sembra ogni volta emergere un conflitto insanabile nei personaggi che agiscono nella storia, al quale l’uomo non può sottrarsi. Qual è la tua tesi e che matrice ha rispetto al pensiero del ‘900 …
VF –
Più che avere una mia tesi preferisco dire che mi sono limitato ad osservare e attestare la veridicità di teorie di importanti scrittori e filosofi del ‘900. In questo mi è stato d’aiuto vivere in due grandi città come Napoli e Milano che, pur se in condizioni sociali differenti, mettono in scena senza troppi filtri le dinamiche di potere e sopraffazione che spesso guidano la società. Napoli lo fa in modo evidente, solare, con l’esibizione di una violenza che può essere addirittura tribale, Milano in modo più sofisticato con dinamiche di gruppo più sotterranee ma a loro modo spietate. Per quanto riguarda l’aspetto teorico, direi che il mio primo riferimento resta Kafka. Il processo e Nella colonia penale, testo con il quale mi sono di nuovo confrontato in questi anni grazie alla bella traduzione di Davide Racca, sono paradigmatici nel descrivere il tipo di rapporto che si istaura tra il potere e l’individuo. Dopo la lettura giovanile di Kafka, sono venuti i grandi autori del pensiero occidentale. Un’occasione su tutte ha contribuito alla mia maturazione su questa tema. Ho avuto la possibilità di partecipare ad una tavola rotonda sulla biopolitica organizzata dal filosofo Roberto Esposito durante la quale abbiamo dialogato con Giorgio Agamben, ma anche con altri teorici e filosofi, sulle tesi di Michel Foucault, Walter Benjamin e Carl Smith. Questi seminari sono stati per me di grande importanza, hanno illuminato la mia visione del potere, che stavo comunque tentando di elaborare durante la scrittura di Ogni cinque bracciate. Nel mio scritto poematico prende forma la dinamica relazionale che lega il singolo e il gruppo, l’individuo e la società. Come mi è capitato di dire altre volte, la forma del poema, ma anche le scelte formali dei libri successivi, riguarda la relazione tra struttura e individuo. Nel caso specifico del poema sulle nuotatrici, ogni singola nuotatrice esprime la doppia natura, il crinale possibile tra alienazione nel potere statale e possibile via di fuga dal progetto totalitario. Nel poema i due processi di costrizione e liberazione, e la loro inestricabile relazione, vengono allegorizzati grazie all’uso dell’ottava; la forma chiusa e la forma aperta si alternano per mostrare il nodo gordiano che forma l’identità dell’individuo. Proprio di recente mi è capitato di leggere un intervento di Giuliano Mesa sulle forme poetiche nella post-modernità in cui scrive una cosa interessante sull’auto fagocitazione delle forme chiuse come indice di liberazione interna al paradigma. Per tornare all’aspetto teorico, bisogna fare attenzione a non dialettizzare il potere statale, raffigurato nel poema con la scelta formale dell’ottava della tradizione, e il singolo, la fuga dalla forma chiusa, come se fossero il male e il bene, ma di vederli relati intimamente. Già i teorici della politica Locke e Hobbes avevano illustrato, anche se su versanti opposti, la necessità di accettare il sacrificio di una parte di sé per dar vita alla forma condivisa come un processo necessario sia alle democrazie che ai regimi non democratici. La capacità di mantenere questa relazione sana, facendo attenzione a non incappare nel processo vittimario e del capro espiatorio, qualifica positivamente la vita democratica e la distanzia da quella totalitaria. Mi sembra che oggi l’aspetto degenere del politico in chiave antidemocratica rischi di diventare prevalente. Il critico Daniele Giglioli con il suo Critica della vittima dice delle cose interessanti su questo aspetto. Per tornare alla tua domanda, nel romanzo Un nome in meno racconto una storia che si intreccia con le altre storie che ho raccontato in versi o nella scrittura teatrale, ossia la vicenda di una donna straniera, proveniente dagli ex Paesi comunisti, giunta a Napoli nei primi anni Novanta. Il romanzo è pensato come una sorta di proseguimento di Ogni cinque bracciate che narra in versi la storia delle ex nuotatrici della Germania dell’est. Julia, questo il nome della protagonista del romanzo, viene sacrificata perché la comunità che l’”accoglie” possa rigenerarsi. Questo testo riprende alcuni archetipi della tragedia greca e richiama dinamiche sempre presenti nell’uomo, che René Girard ha magnificamente illustrato. Uno dei personaggi del romanzo, un giornalista e archeologo, ricorda lo storico Bizantino Tzetzes “che parla della bellissima giovane Giulia Luperca destinata al sacrificio per salvare la città dei Falerii da una carestia”. Nel romanzo cerco di raccontare attraverso una vicenda minima la crisi di un’intera cultura, lì dove i perdenti diventano vittime e capro espiatorio. Il tema del potere torna inoltre nel testo teatrale Spinalonga, ma anche ne Il cane di Pavlov. Per fare un ultimo accenno a Kafka e al suo racconto Nella colonia penale, lo scrittore praghese con la sua parabola affronta il tema del potere, del castigo e della pena, facendo scrivere sul corpo della vittima, e poi dello stesso carnefice, la pena da scontare attraverso un erpice che incide la carne. Ancora una strettissima relazione tra scrittura, forma e potere. Kafka, facendo di sé stesso il corpo che sperimenta la dinamica del potere, ci ha lascito un punto d’osservazione essenziale sul senso della scrittura nel contemporaneo. Lo scrittore, ancor prima di sacrificare una parte di sé per la convivenza civile, si sacrifica per le forme letterarie.

LN – Quale relazione può intrattenere il poeta con il lettore?
VF –
Rispondendo a questa tua domanda, provo riprendere e completare quanto stavo dicendo in quella precedente. Non considero la poesia un rifugio dai mali del mondo o una forma di consolazione, a mio avviso, la poesia deve avere la capacità di inoculare in chi legge la dose giusta di veleno, ossia il dubbio di cui parlavano gli antichi a partire dai tragici fino a Socrate. Quindi il rapporto tra lettore e scrittore deve essere un rapporto complesso e di complicità profonda. Lo scrittore deve fare del proprio testo una macchina di senso che catturi il lettore nel proprio spazio perché questi ne esca poi con maggiore consapevolezza di fronte alla realtà o ciò che nominiamo tale. Per tornare ancora a Kafka, il lettore è lo spettatore che assiste all’esecuzione sull’isola della colonia penale, mentre il poeta è il creatore dell’erpice e quindi anche colui che si sottopone in prima persona al martirio. L’esperienza della lettura dell’opera di un autore deve corrispondere grossomodo a questa esperienza. Naturalmente non parlo di martirio cristologico, ma di abnegazione alla macchina di senso che deve e può essere la scrittura. L’isola di Kafka, il suo racconto, è uno spazio alternativo nello spazio della città.

LN – Cosa pensi degli orientamenti più recenti della poesia in Italia?
VF –
La produzione poetica che abbiamo oggi in Italia è spesso liminare ad altre discipline ma, a mio modesto parere, tende a perdere spesso il proprio statuto a favore di media più potenti, a volte c’è più postura spettacolare che poesia, più volontà confessionale che poesia, più narcisismo dettato dai social media che poesia, più serialità biografica che poesia. Con spettacolo intendo la produzione di merce immateriale, di cui parlava profeticamente Debord, e della sua ricaduta sulla percezione del mondo che abbiamo noi occidentali. Tant’è che la poesia ormai tutti la cercano dove in realtà non c’è: si dice “come è poetico questo film”, “come è poetico questo piatto di pasta” etc. Nessuno riconosce alla poesia un suo statuto specifico. “Poetico” è una sorta di materiale cognitivo espanso in cui ognuno possa esprimere il proprio narcisismo, la propria emotività, le proprie sensazioni, le proprie tendenze sessuali e così via. Il dispositivo che spinge a fare tutto questo è ciò che muove il confessionalismo del ventunesimo secolo, ossia la necessità di rendere trasparenti gli individui. Il letterario, viceversa, è considerato qualcosa di negativo, di retroguardia, di inattuale e reazionario. Di fronte a questo quadro, la poesia dovrebbe restare un linguaggio radicale cioè prossimo alla nostra prima radice, per citare un titolo di Simon Weil. La poesia è allo stesso tempo ricordo e cura della nostra mortalità.  Questo principio, a mio avviso, deve essere presente in ogni vero testo poetico.

LN – Ritieni sia ancora importante per scrivere possedere strumenti tecnici, formali, metrici e retorici?
VF – In parte ho risposto a questa domanda rispondendo a quelle precedenti. Si, penso che sia ancora utile avere dimestichezza con questi strumenti così come un artista informale deve avere dimestichezza con il disegno, la geometria degli spazi e i colori. Mi sembra che la poesia dei nostri giorni, quella delle ultimissime generazioni, in realtà testimoni un forte ritorno alla tecnica anche se questo non si traduce necessariamente nella produzione di forme chiuse. C’è grande attenzione alla lingua, al controllo formale, ma ciò che conta è il progetto. Ognuno deve utilizzare i propri strumenti all’interno di un proprio progetto e il progetto deve avere la forza di delimitare il campo della propria azione di scrittura. Vorrei citare ancora una volta Giuliano Mesa che parlava della falsa dialettica tra forma chiusa e forma aperta, egli ricordava che ogni elaborazione formale è di per sé una forma chiusa in quanto autoriale. L’importante è non cadere nell’inganno del tecnicismo o, all’opposto, della casualità formale. Niente è casuale così come in fisica è ormai noto che non esiste lo spazio vuoto. Se non conosci lo statuto del tuo operare, il termine greco poiein ha una relazione stretta con il fare, si rischia di produrre una scrittura con grande perizia tecnica e linguistica, ma priva di una propria riconoscibilità o, peggio ancora, una poesia impressionistica ed emotiva o ancora confessionale, ossia mirante ad esaltare la biografia del poeta o la sua intimità profonda.

LN – Pensi che esista un compito per chi scrive poesia oggi e, se esiste, quale?
VF –
Credo di aver già risposto a questa domanda.

LN – Quali sono i poeti sui quali ti sei formato o che hai apprezzato?
VF –
A parte i poeti citati nella risposta sulla mia formazione, aggiungerei i nomi di Hölderlin, Rilke, Mandelstam, Lucrezio, Eliot, Dante, Leopardi e Tasso.

LN – Potresti scegliere e commentare un testo tratto dal libro Le pause della serie evolutiva?
VF
Sì:

Ora che le mattine sono imbiancate,
lasciano il morso della notte,
ora che potremmo dilatare l’ombra,
torniamo al patto di sempre.

Era Rilke che diceva:
“Non m’interessa per niente avere ragione”.
Queste perle la realtà non le raccoglie,
restano illibate come sassi sulle tombe.

“Bruciate ciò che resta”,
qualcuno rispondeva,
“bruciate anche la muraglia cinese”.

Perché un giorno non ci sarà confine
tra chi assedia e chi si difende.
La preistoria ci comprende.

.

Questo testo chiude la seconda sezione del libro tutta composta di poesie che hanno la struttura formale del sonetto. Siamo alla fine di una micronarrazione che raffigura uno spostamento dal sud Italia verso il nord.
Nello specifico, la prima quartina parla di una mattina innevata, dice del risveglio di chi soffre di insonnia e confonde la veglia e il sonno, non c’è prevalenza di ombre ma neanche troppa luce. Questa condizione diventa lo sguardo sul mondo. La citazione di Rilke, di cui non ricordo purtroppo la fonte, esprime la presa d’atto di una situazione di mezzo per la quale non c’è ragione hegeliana che tenga, la realtà è vista nel suo essere dimidiata. Le parole del poeta praghese restano inascoltate per coloro che vogliono una visione unica del mondo. L’immagine dei “sassi” proviene dalla mia visita sulla tomba di Kafka all’età di 19 anni, quando ho visitata una Praga ancora postsovietica. Lì ho fatto il gesto dell’usanza ebraica di lasciare sulla stele un sasso che fissava un mio bigliettino contenente un pensiero per il grande autore praghese. Le parole della penultima terzina riportano invece le ultime volontà dello scrittore praghese che chiede all’amico Brod di bruciare i propri manoscritti. Lo scenario che si apre nell’ultima terzina è quello di una dispersione o di un’invasione, che non è certo quella dei migranti ma quella dell’indistinzione dei segni. La preistoria che chiude la poesia ha una valenza ambigua: è quella del sonno, “le preistoria del giorno” per citare un’altra poesia del libro, ma è anche la fase che stiamo vivendo e che affrontiamo villianamente incidendo i nostri segni sulle pareti di una roccia.

LN – Nel volume Il luogo delle forze, che raccoglie i tuoi saggi di poetica, il sotto titolo recita : Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione. Cosa significa per te dispersione e da chi e da cosa ci si è dispersi?
VF
– Per “dispersione” intendo appunto l’indifferenziato, la mancanza di traccia. L’epoca tecnologica che viviamo, che sempre più si affina e accelera, credo ancora di più dopo questa emergenza sanitaria, tende a semplificare i codici, ad eliminare gli inciampi. Siamo tornati nella caverna di cui parla appunto Villa nel suo saggio su Lascaux, ma siamo tornati anche nella caverna platonica senza memoria della luce del sole. Confondiamo i manufatti con la realtà, viviamo un mondo piatto unidimensionale e privo di rilievo formale. Lo spazio poetico è al contrario uno spazio di rilievo. La cibernetica, fin dalle sue origini, tendeva alla fluidità e all’eliminazione dello spazio rilevante. La letteratura va bene se è intrattenimento o “racconto sospirato come una ninna  nanna alle orecchie del lettore”, cito male un’espressione non mia. So bene che c’è una corrente di pensiero che vede nella fluidità formale una sorta di fuoriuscita dalla distinzione tra arte e vita. Resta però il problema della morte e della memoria che abbiamo di essa. La società occidentale si basa su questo ricordo come ha scritto Vernant nel suo saggio La morte negli occhi. Da lì nasce la civiltà e la partecipazione al destino dei singoli.

LN – Sempre nello stesso volume di saggi, a proposito del poema contemporaneo tra bios e storia, leggo “l’autore deve farsi carico, e risolvere formalmente, il contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio simbolico o culturale in cui è calato. (…) L’equilibrio sta proprio nella relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e storia” (p. 64). Sei sempre di questa idea?
VF –
Questo pensiero risente certamente della mia visione della scrittura. Ho cercato di descrivere lo spazio testuale con la formula che tu citi, bisognerebbe naturalmente leggere l’intero saggetto. L’importante per me è sottolineare che la scrittura opera sempre in una condizione storica determinante che l’autore subisce in base alla propria natura temporale. La vera poesia però compie il miracolo di creare uno spazio di mezzo tra l’interpretazione comune dell’epoca o dei fatti, la cronaca, e la mera impressione personale di essa.

LN – Quale importanza attribuisci ai luoghi nelle tue opere…
VF – Sono importanti fin dal libro di esordio del 2002 Fanciulli sulla via maestra, anche questo titolo è kafkiano. Rispondendo a queste tue domande mi sto redendo conto che uso spesso verbi afferenti al senso della vista, un procedere più da artisti o da filosofi che da poeti, ma, a pensarci bene, i luoghi sono anche gli spazi e gli spazi sono materiale letterario importante sia per i narratori che per i poeti. In poesia, ma credo anche nella bella narrativa, i luoghi non sono soltanto i contenitori di personaggi o storie, il luogo è lo spazio misterioso che ci ha formato da ragazzi, ci ha accolto da adulti, e che resta immobile nel tempo. Forse dico questo essendo nato e vissuto in una città antica, fatta di luoghi che sopravvivono a generazioni e generazioni. Non ho fatto altro che adattare di volta in volta la mia visione a quei luoghi, cercare di farne combaciare i contorni in uno sforzo impossibile. I miei libri parlano in buona sostanza di Napoli e Milano, anche quando scrivo della Germania, parlo un po’ di Napoli. Lucrezio lo immagino a Napoli, ad esempio. Mi ripeto, fin dall’inizio della mia formazione ho pensato che gli spazi e i luoghi dovessero avere un’importanza rilevante almeno quanto la verticalità del tempo per i lirici.

LN – Come è nato e si è sviluppato il libro?
VF –
Il libro Le pause della serie evolutiva nasce sicuramente dopo la morte di mio padre, è condizionato da questo evento: la morte di un operaio, la fine di un’epoca materiale e l’inizio di un’epoca immateriale. Di fronte a questo salto si apre una faglia temporale. Il libro è anche un percorso luttuoso che porta alle domande sul senso della fine. I testi sono stati scritti nel corso degli anni, dal 2003 al 2014, credo. Sono stati raccolti in diverse antologie o riviste, ma fin dall’inizio avevo un’idea unitaria del progetto. Il titolo è una frase di Osip Mandelstam che parla di Lamarck, e racchiude il senso dell’opera, ossia uno sguardo nella faglia che si apre quando si mette in crisi il determinismo evoluzionista. C’è inoltre un titolo del romanziere Giorgio Saviane che mi ha accompagnato durante la formazione del libro, Il mare verticale, in cui si parla di un uomo del ventesimo secolo nella prima parte del libro e, con un salto indietro, della preistoria nella seconda parte del libro. I due universi sono accostati ed è come se si rispecchiassero. L’idea di una faglia verticale che spezza in due il testo mi ha ispirato profondamente. Le pause hanno una struttura di questo tipo. La prima sezione del libro è composta da tre parti: la prima parte è un’overture filosofica in tre tempi sul senso della scrittura e della fine, la seconda parte composta da sonetti sull’emigrazione tema che tocca anche la terza parte, quest’ultima però è già un passo nel tempo. La seconda sezione è composta, a sua volta, da tre parti, tre monologhi di tre personaggi storici, il latino Lucrezio, il fanciullo provenzale Stephan, il greco Epaminonda: la prima parte è una riflessione filosofica sulla vita e sulla morte, la seconda è l’emigrazione dei fanciulli crociati del 1212, la terza si chiude sulla prima della prima sezione con la prospettiva dello scrivente che ragiona sull’atto della scrittura sul senso della fine.

LN – Continuità o discontinuità tra i tuoi libri di poesia.
VF –
Spero che i miei libri abbiano una connessione interna riconoscibile, per chi avesse voglia di leggerli. Mi auguro di essere riuscito a spiegare già nelle precedenti risposte come ci sia una tematica ricorrente nei miei diversi libri di poesia e narrativa. Per quanto riguarda i miei ultimi di poesia, Ogni cinque bracciate e Le pause della serie evolutiva, sono stati scritti praticamente in contemporanea. Avevo in mente un’alternanza tra la concentrazione formale e spaziale del primo, Berlino est e l’ottava, in alternanza al viaggio e alla dilatazione formale del secondo. Nel primo prevale la conservazione sulla dispersione, nel secondo la dispersione sulla conservazione. Le forze in campo restano però relate inestricabilmente in entrambi i volumi: se c’è più conservazione è per reazione alla dispersione, se c’è più dispersione è per una pausa dalla conservazione. Il risultato del gioco tra le due forze è lo spazio vitale della parola, il nostro biosistema. I personaggi, che compaiono come spettri della Storia sia nel primo che nel secondo libro, portano su di sé la trazione tra dispersione e conservazione. In questo sono figure emblematiche dei luoghi che abitiamo.

 

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Vincenzo Frungillo è nato a Napoli nel 1973 dove si è formato negli studi prima di trasferirsi in Germania, poi a Milano e infine nella Svizzera italiana. Ha pubblicato libri di poesia, drammaturgia teatrale, saggistica e narrativa. Per la poesia ricordiamo Fanciulli sulla via maestra (con una nota del poeta Milo De Angelis e la prefazione del filosofo e poeta Eugenio Mazzarella, Palomar, 2002), Ogni cinque bracciate. Un estratto (con il quale è stato finalista del premio Antonio Delfini di Modena, edizioni Galleria Mazzoli, 2007), Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis, Le Lettere, 2009), Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia (con il quale ha vinto il Premio Russo-Mazzacurati di Napoli, edizioni d’If 2013), Le pause della serie evolutiva (Oedipus, 2016). Per il teatro ha pubblicato Il cane di Pavlov. Un monologo (con il quale ha vinto il Premio di drammaturgia Fersen di Milano, Editoria & Spettacolo, 2013) e Spinalonga. Una drammaturgia sulla corruzione (con tavole dell’artista Davide Racca, Zona editore, 2016). Ha pubblicato inoltre il saggio Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione (con disegni del pittore Francesco Balsamo, Carteggi Letterari le edizioni, 2017). Un nome in meno (Ensemble, 2019) è il suo primo romanzo. Suoi versi sono raccolti in antologie italiane ed estere.

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