A Marco Santagata. Un ricordo personale di Daniel Bellucci

In memoriam
Nizza, 11 novembre 2020
(giorno dell’armistizio del 1918 per la Francia)

di Daniel Bellucci

Non abitava rue des Carmes a Parigi, no, abitava a Pisa laddove, tra l’altro, insegnava, e si chiamava Marco Santagata.
E mi sono venute in mente, in modo analogico, anche le parole della celeberrima canzone della Pausini “Marco se n’è andato e non ritorna più”.

La settimana scorsa si è spenta la tua luce, Marco, il che non può che addolorarmi. Marco sei andato via e ci mancherai.
Non era di maggio, è oramai passato più di un quarto di secolo dal giorno in cui ti conobbi. Avevi esattamente l’età che ora ho io, anche se all’epoca mi sembravi più grande. Io ero ventunenne, iscritto al terzo anno di lingua civiltà e letteratura italiane a Nancy. Venivi una volta o due al mese per farci tre ore di lezione nel pomeriggio del giovedì, ci parlavi della Laura di Francesco e accanto a me stava la mia Laura farfalla dall’aureo crine, fu un anno splendido grande e terribile, di sudate carte e lenzuola, di gioie e disillusioni amare. Davvero iniziava per noi la vita adulta.

Durante quelle tre ore appassionanti, ti fermavi ogni 40 o 45 minuti perché sapevi che la concentrazione nostra non poteva reggere di più. Questa cosa che vi potrà sembrare forse una sciocchezza, nugae – come definiva Francesco le sue rerum vulgarium fragmenta perché pensava di rimanere famoso come autore dell’Africa che non portò mai a termine – in realtà era prova di una grande sensibilità, di un’intelligenza sottile, di una profonda umanità e di una vera e propria empatia.

Citavi i codici latini 3195 e 3196 – “tutto di mano di Petrarca” quest’ultimo “mentre di Dante non abbiamo neanche la firma”, dicevi – a memoria. Dovemmo subito notare la differenza culturale abissale tra i nostri soliti professori e te. Alcuni studenti, quelli che preparavano i concorsi per l’insegnamento – i famigerati Capes e Agrégation – si lamentavano perché secondo loro il corso non era abbastanza “strutturato alla francese”. Secondo me sbagliavano e poi per me, questo finalmente era un corso universitario!, un qualcosa con mille riferimenti in grado di aprirti e allargarti la mente; perché purtroppo c’erano altri docenti, forse per mancanza di cultura, che si nascondevano dietro schemi e schemini di un tecnicismo gretto ed insulso.

Conobbi grazie a te, e attraverso la canzone XXX di Francesco, quel metro favoloso tutto imperniato sulla retrogradatio cruciata – la canzone sestina il cui padre sarebbe il provenzale Daniel Arnaut – che sperimentai nel ’98 in memoria di Giacomo Leopardi, un altro poeta di cui eri gran cultore.

Il giorno in cui dovesti sorvegliarci per l’esame scritto, la situazione ti aveva fatto venire tenerezza perché ti ricordava gli anni tuoi remoti del liceo (perché effettivamente nel sistema universitario italiano gli esami scritti non esistevano e mentre scrivevamo chi il tema, chi il commento, ci avevi detto di non aver mai saputo barare; perché ci voleva tanto ingegno per farlo bene, indi ammiravi chi lo sapeva fare). Mentre ripenso e scrivo di quei giorni, mi viene una grande nostalgia.

Qualche mese dopo, in primavera, con tono scherzoso mi avevi chiamato “presidente” all’esame orale (perché all’epoca, ero presidente dell’associazione degli studenti). Faceva caldo quel giorno nell’aula 123 e mi avevi dato gli spiccioli per andare a prendere le lattine nel distributore a pianterreno per noi tutti studenti che dovevamo dare l’esame con te; anche questo mi era piaciuto assai. Mi ricordo pure di aver osato stabilire paralleli, che oggi mi sfuggono, tra Carlo Emilio Gadda, Manzoni e Francesco Petrarca che non erano per nulla errati ma forse un po’ spinti in effetti lo erano…

Dopo l’esame, mi avevi detto di non sapere come valutarci perché avremmo dovuto, secondo le regole stabilite dal sistema, fare commenti di un quarto d’ora mentre alcuni di noi si erano fermati dopo un minuto o due e che quindi meritavamo dei voti bassi. Nel contempo avevi pure riconosciuto che il nostro sistema francese era un bel po’ assurdo perché chiedeva agli studenti esegesi formidabili quando gli studenti a volte non capivano neanche la lettera del testo.

Una volta, durante il corso sulla poesia del ’900, proponendo un’analisi della famosa “Non chiederci la parola” montaliana, citai un altro critico universitario italiano e tu, con disinvoltura, mi dicesti: “non lo citare più, è un cretino”. Per me fu favoloso: nel sistema francese ci avevano sempre detto o fatto capire che si doveva essere “oggettivi”, che uno non si doveva sbilanciare: tesi – antitesi – sintesi; insomma un sistema molto fiscale, mentre io avevo sempre creduto che la vera critica fosse partigiana! Ebbene, mi confortavi in quella idea e questo mi piacque tantissimo.

Ovviamente nel sistema francese quel mio essere un po’ sui generis non mi fruttò mai (quando all’agrégation consegni una poesia divertita anziché una dissertazione, la commissione non ha i mezzi per giudicare; quando ad un convegno internazionale di studi sul Rinascimento proponi un’esegesi in versi di Machiavelli davanti ad una platea di dotti, anche in quel momento provochi un certo malessere ed una forte incomprensione).

Quando ci parlavi del prosimetro dantesco, la Vita nova, quel miscuglio di materiale vario, poesie e commenti, io sentivo ed assorbivo. Tu ti sei dimostrato favoloso in tutt’e due i campi, quello della critica universitaria accademica e quello della narrativa d’invenzione, tant’è vero che, con Petrarca ne Il copista e con Dante nel romanzo Come donna innamorata, sei riuscito ad intrecciare mirabilmente i due modi. Sei stato, come diceva Petrarca di se stesso, un uomo di otium e non di negotium, un grande studioso e un uomo gentile.

Poche ore dopo la tua scomparsa, con una mia classe di Terminale, ho proposto agli alunni l’inizio del tuo finale inedito di Papà non era comunista fermandomi alla frase che per me è tra le più significanti in assoluto : i nomi non contano, perché nella storia gli schieramenti sono sempre stati solo due: o si sta con i poveri, o si sta con i ricchi  e  i due schieramenti non sono equivalenti. Ecco, anche questo tuo modo di scrivere così semplice, limpido e profondo ti traduce, ti rispecchia.
Per me questo tuo primo libro di narrativa, con accenti autobiografici appena velati, che ti avevo tradotto nel 2008 e che purtroppo non trovò mai un editore intelligente in Francia (il che mi rattristò più di un po’, visto tutto quello che invece si pubblicava…); questo romanzo, che raccontava il passaggio dell’Italia dalla civiltà contadina a quella industriale, avrebbe meritato una pubblicazione francese.

Marco, eri uno di quelli che, della tua generazione – che definivi molto fortunata perché senza guerre e con il pieno impiego – credevi nel mezzo digitale per l’insegnamento, tant’è vero che avevi registrato tutto un corso sulla letteratura italiana delle origini, visibile sul canale Rai Nettuno Sat Due (e oggi queste lezioni si possono trovare anche in Youtube, all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=WIE22K1N5bU).

Era favoloso il tuo “salve” iniziale.

Salve, Marco.

D.

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