Certi piccoli fuochi

da Filigrane (Affinità elettive, 2020) di Guido Garufi

 

Era un giorno come gli altri e con Remo (ndr.: Pagnanelli) passeggiavo lungo le mura dell’Albornoz, quelle mura circondavano la città “imitando” quel senso di ripetizione ossessiva della quale mi sono intrattenuto. La ripetizione per qualcuno è un elemento che rassicura, avvicina alla culla, al suo dondolìo. Mi resi conto che aveva ragione Elvio Fachinelli nel suo bellissimo libro Claustrofilia quando elaborò una sorta di inghippo nevrotico secondo il quale alcuni si sentono sicuri solamente quando stanno “dentro”, quando non escono mai, quando mai si avventurano “fuori”. Io penso di essere un claustrofilico, nel senso più esteso della parola, come lo è qualsiasi autore il cui perimetro è la pagina bianca e il testo e le parole con le quali, però, qualsiasi scriba autentico vuole rompere l’assedio, vuole rompere il cerchio. A volte si attende una vita come in Aspettando Godot di Samuel Beckett, aspettando qualcuno che ci salvi, ma nel frattempo si sta fermi, quasi cristallizzati, e perché no, allora Il deserto dei Tartari? Ma questa staticità è apparente o almeno per me lo è stata: i miei viaggi sono stati come quelli di Giulio Verne che non si era mosso più di trenta metri da casa sua, parlando tuttavia di tigri dell’India, o anche l’immobilità di Emanuele Kant che mai si mosse dalla sua Könisberg ma da quel luogo scrisse le cose più profonde sul destino dell’uomo, sulla logica, sull’etica, sull’estetica, su Dio.
(…)

Guido Garufi

Dopo tanto tempo mi sono accorto, anzi, sono certo, che aver mantenuto “sveglia” quella parte di me che nulla ha di nostalgico o romantico, mi ha salvato, ha costituito una bussola o un radar, meglio ancora un faro, indicandomi delle direzioni da prendere, mentre la mia vita entrava per un lungo periodo nel suo nodo. Non mi ha salvato, come si può pensare a un primo impulso, la fede, poiché al contrario di San Paolo non ho mai avuto forti abbagli o folgorazini sulla via di Damasco. Piuttosto ho visto piccole luci, frammenti di luce, barbagli, sono questi ad avermi lasciato una “eredità di affetti” ricca e fertile, una vera e umana bussola orientativa.

Sono continto che sia scaturita, non solo dall’esperienza che si fa nella vita, ma dall’esperienza della “lettura” dell’animo degli altri attraverso, più in particolare, la potente voce della poesia, i richiami centrali che molti scribi, come me, hanno accumulato nel corso dell’esistenza. Ma il punto fondamentale che vorrei far intendere allo sparuto gruppo dei miei lettori è il seguente: non posso e non voglio essere frainteso e non appartengo a quella troppo folta schiera di narcisi o mistico-ossessivi che identificano la letteratura con la vita. Per me le due cose non convergono, semmai, a volte, esiste un parallelismo. E troppi ne ho conosciuti che pensavano o ritenevano che il loro testo fosse “tutto”. Questo, per quanto mi riguarda, è un grande errore. La poesia è stata, ed è per me, unicamente un approfondimento dell’anima, una lente per leggere meglio le cose, quelle personali e quelle degli altri.

Remo Pagnanelli

Da questa mia “dottrina introspettiva”, vorrei provvisoriamente chiamarla così, nasce l’ipotesi (sperimentata) che l’incontro con l’altro, se nutrito di tale retroterra emotivo, sia un vero e proprio atto “magico”, simile a quello del Vecchio marinaio della insuperabile ballata di Coleridge. Strane intuizioni, piccole folgorazioni, incontri improvvisi, questi e solo questi sono i segnali di tale fenomenologia. Una fenomenologia oggi quasi assente o abbandonata, dominati come siamo da una lingua che è tecnica o scientifica, alla faccia del cuore, del sentimento e dell’etica che da questa deriva (o dovrebbe derivare).

Tali “lapilli di luce”, segnali umili e frammentari, sono presenti, per citare un caso non fortuito, nel Bardo Tödröl, il Libro tibetano dei morti. Ebbene, molte volte ne parlavo con Remo, a proposito di queste brevissime folgorazioni e proprio lui ammetteva che tali luccicanze più volte lo avevano colpito. (…) Questi piccoli fuochi, queste micro-accensioni dell’anima, questi sussulti del cuore, mi hanno sempre accompagnato, ogni volta ha segnalato la possibilità di entrare nel cuore dell’altro, di intraprendere con lui un discorso che andasse oltre la circostanza di quel particolare incontro, di affrontare con l’altro questioni più urgenti e assolute. Questi accadimenti si facevano sempre più frequenti e misteriosi poiché il mistero, il vero mistero, risiedeva nella automatica e vicendevole possibilità di aprirsi a 360 gradi. All’inizio provavo una certa difficoltà poiché non tutti i dialoghi scivolavano via su una corsia di facile praticabilità, ma poi più io parlavo con l’altro, più era l’altro, a un certo punto, a dare forza a me stesso. Quale fosse l’origine di questo mio sentire, da quale origine sbucasse tale possibilità che a me appariva strana e inedita non saprei dire. Ma certamente il fenomeno si ripeteva con una certa frequenza e intensità.

Ho fatto cenno a uno stato come di ebetudine o di ipnosi facendo riferimento a quel pezzo magistrale di Poe a proposito del Crollo della casa degli Usher. Ma se in quel caso si potrebbe sostenere che l’onirismo e la visionarietà dell’autore potevano spiegare quel clima e quel mistero, io non trovavo affatto misterioso, anzi, indubbiamente fisiologico e religioso questo mio modo di essere con gli altri. Registravo momenti di apparente stallo, quasi di fissità, nella quale la concentrazione era massima e sentivo dentro di me una grande pace, una serenità, una sospensione del tempo. Ed è questa la filigrana, la lente particolare che mi ha sempre consentito di leggere la vita degli altri, addirittura di “entrarci”, di visitare e condividere certi nodi, certi ingorghi, certi passaggi della mia vita e di chi mi stava accanto.

 

 

 

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