Gli amici maceratesi ricordano Pietro Polverini

Pietro Polverini (1992-2023) viveva a Macerata dove, dopo aver conseguito la laurea magistrale in Filosofia con una tesi in Teorie dell’arte dal titolo Un’estetica dattilografica. Appunti su Amelia Rosselli, stava perfezionando i suoi studi con un secondo percorso in Filologia moderna. La sua attività critica era rivolta alla letteratura italiana moderna e contemporanea: recentemente si era occupato di Giovanni Prati e Clemente Rebora. Aveva all’attivo contributi confluiti in riviste accademiche e volumi universitari dedicati a Patrizia Valduga, Vivian Lamarque, Pier Vittorio Tondelli. Era redattore di «Mediumpoesia». Alcuni suoi versi sono apparsi sul quotidiano «La Repubblica», per La bottega della poesia, a cura di Gilda Policastro, e nell’antologia Lo spazio e l’onda. Una teoria di giovani poeti marchigiani (Seri, 2021). Nel 2022 ha pubblicato la raccolta di poesie Indice sommario di sbiadimento (peQuod).

Pietro Polverini

Da Indice sommario di sbiadimento (peQuod, 2022)

*

Spesso a voi ritorno col pensiero
che siate vivi o morti poco conta:
circondati in un cerchio di betulla,
senza ago di luce, ma di foschia
solo lo spazio ha dovere di mischiare
le acque, sporgersi di fronte ad un
bosco – lucus a non lucendo per dirti
che se gli occhiali si fanno appannati
di coltre biancofumo o di bruma senza
visione, resti ancora in controcampo.

*

Chi va in vacanza spera sempre [1]
di non tornare, di vedere la pelle
sciogliersi in una lingua di cloro.
Mancare è una veste chiara,
un altare infuso in acqua,
un chiodo da cui cominciare.

[1] Il primo verso è un calco della poesia Video di Antonella Anedda, Salva con nome, p. 114: “Chi se ne è andato non desidera tornare”.

*

Alta quiete di novembre:
l’aria ora si deposita sugli occhi.
Disinfettare la pelle,
sottrarre i vestiti a lenzuola straniere
come il polso fermo
sul dorso della mano.
Restare immobili sulla
stanza al rovescio,
bagnarsi l’ostia delle labbra,
lasciare gli animali in cortile.
Altrove l’alga del cielo
supera in una rete di coralli
il nostro infermo assedio.

*

“Dilla per me, Johannes, la parola”.
(Patrizia Valduga, Belluno)

Vorrei sapere delle parole
il numero: apprese
obliate, annotate.
Ora ho una corolla di nomi
che si spunta e sbiadisce:
non lasceranno traccia sulle
increspature delle labbra.
Delle parole vorrei sapere
forse fiato, forse voce
quale sarà la mia ultima:
tutto pieno di sonno e nebbia
potrei dire “acqua” o “lenzuolo”.
Vorrei sapere delle parole
il numero: di quelle che
possono lasciare la faretra,
strale che conosce il bersaglio
ma voi nomi senza bersaglio
siete le api nella mia bocca,
siete le suture per cucire
lo spazio mondo tra chi dice “io”
e questa bianca valanga di nulla.
Vorrei sapere delle parole
non il numero, non la forma,
non il suono. Del verbo vorrei
riconoscere il principio per dire
che dal principio non ritrovo
la parola.

Pietro Polverini, Indice sommario di sbiadimento, peQuod, 2022

Pietro era nato a Camerino e risiedeva a Fiastra ma viveva a Macerata, dove molte persone, radicate o in transito, si erano legate a lui. Gli amici maceratesi lo ricordano.

***

Un ritratto di Pietro

Da una parte c’è l’istinto di custodire per tramandare, dall’altra il senso di inadeguatezza nell’ereditare una memoria e appropriarsene pubblicamente per offrire, a chi non l’ha conosciuto, il ritratto di un amico attraverso l’esperienza che abbiamo vissuto della sua persona.
Pietro era castano, pettinava i capelli da una parte sui lineamenti affilati, la barbetta incorniciava un sorriso ironico, fanciullesco, tradito dall’occhio di chi vede troppo. Pietro era curioso, sagace, erudito. Pietro era cortese, dolce, trepidante. Pietro era compagnone, a tratti misterioso (custode di un riserbo brumoso ma incontaminato), antropologicamente affascinato dalle persone complesse, stratificate, inquiete. Pietro sapeva essere gradevole anche quando era convinto di non esserlo, nell’impeto dell’eloquio che rincorreva i rizomi di un pensiero rigoroso, brillante, esigente. A Macerata Pietro girava con uno zainetto marrone e spesso abbottonava le camicie alla coreana fino al colletto, o si avvolgeva in una delle sue sciarpe. Pietro sosteneva di saper solo strimpellare il piano e la chitarra. Pietro tifava Sassuolo, giocava a tennis ed era un cinefilo: parlava della bellezza della fase Tarkovskij, ricordava che Carlo Verdone aveva compiuto studi umanistici. Pietro amava la letteratura e raccontava spesso dei convegni tondelliani a cui aveva partecipato. Soprattutto Pietro amava la poesia. Una volta mi regalò Vita meravigliosa di Patrizia Cavalli, una delle sue autrici preferite. Un’altra volta, in macchina (si rifiutava di guidare per lunghi tratti e ci scherzava su), poco prima che uscisse Indice sommario di sbiadimento (peQuod, 2022), Pietro mi fece notare che il titolo che aveva scelto per il suo libro è un endecasillabo. Diceva che questo titolo si era andato formando a poco a poco nella sua mente e pensavo a qualcosa che dalle acque dell’inconscio emerge alla trasparenza, a fonemi che cercano il loro segno e il loro senso. Il legame tra linguaggio, memoria, coscienza e conoscenza attraversa la raccolta di Pietro e si discioglie gradualmente in un solvente di ripetute negazioni che annullano soggetto, corpo, forma e suono, come se tutto avesse la facoltà di manifestarsi e riassorbirsi nella tabula dealbata della pagina e del nulla, nell’intercapedine tra l’io e il mondo.
Per più di un anno Pietro ha atteso la caducità di novembre per disseminare in noi, garbatamente e definitivamente, la sua coscienza. Pietro si è dissolto nell’inesauribile archivio delle sue immagini rarefatte. Pietro ha varcato la soglia delle sue parole alte e antiche, indifferentemente pronunciate al tavolo di un bar o scritte in uno dei suoi versi. Pietro è rientrato nel principio tanto ricercato di queste parole, nel loro silenzio senza voce: ovunque continuiamo a sentire lo spessore dell’assenza che occupa il suo, il nostro spazio vuoto.

Jacopo Curi

***

Per Pietro

Ci siamo conosciuti tardi ma ci siamo intesi subito. Non ricordo di preciso quando fu la prima volta, come sempre con chi ti dà di netto l’impressione di voler recuperare il passato perduto, le parole che non ci si è ancora detti, le occasioni che avreste potuto fino ad allora condividere: pronto ad ascoltarti, a volerti cercare gli occhi e poi magari schiudere le labbra, sorridere lungo la piega irregolare delle labbra, chinare lo sguardo e dare avvio al confronto. Me lo ricordo sempre in quella posizione rilassata e insieme protesa, la battuta arguta, anche salace, sempre pronta a sorvolare il tavolo dei nostri aperitivi tra amici, come se i discorsi prendessero attraverso i bicchieri ormai vuoti il suono opportuno. Come se non ci fosse mai necessità di troppa cerimonia e bastasse allungare una mano per sentire la reciproca presenza nel dirsi i versi, le distanze, le assonanze. Ma adesso, di là dal tavolo, non c’è più: non c’è stato tutto il tempo che avrei voluto per parlare, ridere, capirci, goderci l’affinità e stimolarci nelle differenze. Continuerò ad ascoltare, sperando di sentire ancora, nei versi che ci hai lasciato, i brindisi che avevamo celebrato.

Marco Di Pasquale

***

Sono tornata a Macerata per scrivere di te, per ripercorrere le strade che abbiamo calpestato insieme tante volte, ma poche, pochissime, molte meno di quanto avremmo meritato.

Eravamo legati da un filo invisibile, la paradossale, e anch’essa ingiusta, vicinanza che connette due persone poco meno che estranee più di quanto potrebbero sperare di connettersi due legati da rapporti cementati dal tempo.

Inconsapevoli, in una città tanto piccola, avevamo dedicato, con uno scarto di pochi mesi, tutte le nostre energie allo studio della stessa poetessa da una prospettiva simile. Ed è forse così che ci siamo scambiati le prime parole.

Ci conoscevamo in maniera indiretta: avevamo seguito qualche corso insieme, tu eri nella classe di filosofia di alcuni amici e io frequentavo lezioni di altre facoltà perché non ero ancora sicura di dove stessi andando. Avrei scoperto che anche tu giocavi a cancellare quel confine che divide Palazzo Ugolini da Palazzo Garibaldi, il bello dal vero.

Ricordo distintamente il tuo aggirarti tra gli scaffali della biblioteca come uno spirito dei libri, il tuo danzare a mezz’aria in un equilibrio precario, visto da terra, ma certissimo, a uno sguardo allenato a scrutare nell’aereo.

Ricordo quel pomeriggio invernale, di un anno remoto che non saprei ricostruire, in cui mi parlasti di Amelia Rosselli: sì, anche io l’avevo studiata; certo, avevo ancora la tesi; ti avrei dato le indicazioni bibliografiche, volentieri; e tu? anche tu avresti fatto lo stesso.

Non abbiamo più parlato della nostra passione per Rosselli, era stato semplicemente un suggello, l’accertarsi reciproco di una sensibilità comune: un segnale di riconoscimento.

Non so più cosa sia avvenuto prima e cosa dopo, e ho l’impressione che in un certo senso non conti. Ricordo lo scambio dei doni di laurea e dottorato: Ingeborg Bachmann per Antonella Anedda.

Ricordo poi la lettura di Valduga e la nostra partecipazione allo staff di Musicultura. Hai atteso che terminassi la mia intervista alla “tua” poetessa, con la quale avresti intrapreso una corrispondenza epistolare, parlandole con la sororale confidenza che concede la comune familiarità con la stessa madre, la poesia. Comprammo entrambi un libro, tu scegliesti l’ultima copia di una raccolta dedicata al padre, e, quando ti accorgesti che avrei voluto acquistare lo stesso per conservarlo autografato, me lo cedesti, semplicemente.

Mi accorgo solo ora che tutti i nostri incontri si sono svolti sotto l’egida di un libro, un libro amato, desiderato, donato. Poteva essere altrimenti? La letteratura era ciò che ci univa, insieme all’astratta ambizione di accedere ad un mondo altrettanto astratto, una fantasia o una proiezione che sapevamo entrambi sarebbe presto evaporata ma trattenevamo ostinatamente, ad occhi chiusi.

Eppure, non è solo questo che nutriva la nostra affinità, come avrei scoperto durante l’ultimo dei nostri incontri, delle nostre lunghe chiacchierate in cui tu riuscivi disinvoltamente a saltare dal serio al faceto, con un eloquio eletto, snocciolando parole magnifiche e accostamenti inattesi senza alcuna affettazione, con un’umiltà, anzi, che non veniva dall’ingenuità, ma dal riserbo di chi sa di possedere un dono. Dono che io ammiravo enormemente, e quasi speravo di assorbire con la tua sola vicinanza.

Mai avrei immaginato che tu facessi qualcosa di simile con me. Le confidenze, la condivisione di esperienze, la richiesta di confronto erano tentativi di rispecchiamento, forse reciproci. Ma la tua onestà e la tua generosità non ti consentivano di lasciarlo inespresso, e me lo dicesti, mi confessasti quello che io non solo non sarei stata in grado di capire, ma mai avrei avuto il coraggio di verbalizzare. Invece tu sì, non avevi paura delle parole, perché le possedevi e loro possedevano te, e non esisteva nulla che non potesse e non dovesse essere detto, con le giuste parole.

Fu allora che compresi che no, non eravamo uguali e neppure simili: tu eri di un altro mondo, vedevi tutto da qui, ma anche da un altrove, da quello spazio infinito di carta e poesia in cui ti immagino ancora aggirarti con passo di danza, in cui sempre ti trovo quando cerco le parole esatte.

Maria Valeria Dominioni

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A bassa voce

Pietro me lo ricordo e me lo immagino. Quello che immagino mi viene suggerito anche da ciò che ricordo: memoria ed immaginazione, in questa distanza profonda cui gli eventi ci hanno costretti, finiscono a un certo punto per mescolarsi e confondersi.
Pietro è stato un bravo poeta, un bravo studioso, e un ottimo amico. Questo posso dire di ricordarlo. Il fatto che queste affermazioni siano in qualche maniera prevedibili e consuete, in una circostanza del genere, ora mi interessa poco: vorrei invece che oltrepassassero la propria natura occasionale, che sedimentassero.
Non conoscevo Pietro da molti anni: altri potranno rievocare cose che a me, per ovvie ragioni, sono precluse. L’ho conosciuto, di fatto, per le solite ragioni in cui molti di noi si conoscono: i libri, la poesia, eccetera. Ma ho avuto da subito con lui un’amicizia onesta, sottile, radicata. Sottile lo era davvero, Pietro. Nella finezza dell’intelligenza e del gusto, così come nella fisionomia dell’individuo: era una creatura a bassa voce, mai invasiva, più adatta all’ascolto che al dire di sé. Sottili erano anche le sue difese: ad ascoltarlo e ad osservarlo con attenzione non era difficile intuirne la malinconia, le ombre, e forse il bisogno di essere accolto integralmente. Tutto questo, che oggi chiamiamo generalmente “fragilità”, risulta a tutti tremendamente sospetto: lo è nelle relazioni interpersonali, nella zuffa (virtuale e reale) dell’ambiente letterario, nelle stanze dell’Accademia. Un po’ ovunque, insomma. Il soggetto funzionale è smaliziato, accorto, opportuno, e quasi sempre a distanza sicurezza (dagli altri… e da sé stesso): sa dove andare, dove fermarsi, cosa aspettare, cosa dimenticare. Io, invece, ho sempre nutrito un affetto particolare per le persone come Pietro: spaventate, sincere, “lontane”. Eppure presenti.
Pietro me lo immagino felicemente intrappolato in biblioteca a studiare, studiare, studiare. E a scrivere, talvolta. Ma non sempre: per Pietro la presa di parola, e ancor più la sua parola poetica, era un fatto delicato, complesso, che richiedeva tempo, necessità, condizioni propizie. E tanto studio. Per questo era così diverso da molti di noi: era così privo della bulimia dell’esserci a tutti i costi, di correre da una parte all’altra, di mettere in bella copia la propria opinione in ogni circostanza, di dire fare scrivere presentare organizzare mediare. Di tutto quello che ci rende spesso così indigesti, inessenziali. No: questa non è un’apologia un po’ démodé della figurata periferica ed isolata. È il ricordo, reale e immaginario insieme, di una persona discreta, silenziosa, appassionata, tenace. E capace di restare nascosta. In questo era davvero marchigiano, e tale voleva restare. Al di qua del caos. Pochi mesi prima che si addormentasse, presentammo i nostri libri insieme, a Macerata. C’erano molti amici ed amiche. Era in apprensione, Pietro, nonostante fossimo a casa nostra: non amava esporsi in pubblico. In qualche maniera temeva gli altri. Avrebbe dovuto presentare il suo libro a Bologna, di lì a breve. Accompagnami, mi aveva chiesto: mi fa paura stare da solo in mezzo agli altri. Aveva scritto sul mio libro un articolo bello, cólto ed intelligente (come tutto ciò che scriveva): e aveva impiegato due mesi a farlo. Questa era l’attenzione e la cura che riservava alla letteratura, alla poesia, alla filosofia, a ciò che per lui era davvero importante.
Oltre a tutti i suoi scritti critici, soprattutto il suo libro merita di essere letto: non per restituirgli l’attenzione che lui ha avuto per la parola altrui, ma per la forza allo stesso tempo disperata e composta, oscura e classica dei suoi versi. Così centellinati, e quindi così necessari. Ogni volta che penso a lui e a ciò che ha scritto, ogni volta che penso a lui senza far vincere la rabbia e la tristezza infinita, ripenso alle parole di Celan: «La poésie ne s’impose pas, elle s’expose».

Emanuele Franceschetti

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Lettera alla Sibilla, in ricordo di Pietro Polverini, poeta

Non volevo scriverne, né parlarne, mi fa paura, mi fa così paura questa morte, mi fa perdere la voce, mi fa sentire stupido, profano. Non ho il coraggio di riaprire la chat con Pietro. Mi aveva da subito fatto sorridere, in chat scriveva come fosse un letterato d’altri tempi, direttamente dal primo Novecento, con una posa così marcata che non poteva essere vera; e poi mi scriveva da Fiastra, era il poeta a me più prossimo geograficamente, due poeti in due posti vicini e ugualmente perduti. Poi decido di fare una lettura in montagna, le nostre montagne sibilline, tra casa mia e casa sua, una lettura solo per pochi amici, e lui era lì. Infine a Macerata, che non torno mai, ma ogni tanto mi faceva così piacere rivedere i poeti di lì, ricordo un aperitivo da Ginetta e poi a mangiare al Pozzo, e quella sera sono passati tutti a salutare, a dire due cose, a parlare di poesia come si deve parlare, con intelligenza e ironia, con spensieratezza. Mi ricordo di Pietro che se ne stava vicino a Guido Garufi a scherzare della loro ipocondria. Me lo ricordo ridere per queste cazzate, belle, bellissime. Pietro era un buono. Mi stimava, lo stimavo, e oggi più che mai conta così tanto esserci raggiunti. La morte fa perdere la voce, ma la fa acquisire alle cose, ai gesti, ai ricordi. Purtroppo le cose sono corruttibili, sbiadiscono, che come dice Pietro, «è uno scolorire per eccesso, per lo strabordare dai limites di un’altra forma sottostante alla principale». Questa forma, non è accettabile per me, e devo comunque accettarla. Queste impossibili risate, non sono accettabili, non dovrebbero sbiadire. Mi volto dall’altra parte, cerco altrove i frammenti. Voglio rileggere Pietro, con più cura, quanta poca cura gli ho dedicato, e mi torna ad ammonire: «nulla per me avresti potuto fare/tu che tutto hai tentato di fare». Ma io non lo so se ho tentato di fare tutto, io non lo so. È facile ora sentirsi in colpa, per la mia negligenza, è facile dire avrei dovuto, forse avrei potuto, è così facile poi giustificarsi, chiudere, dimenticare, lasciare che questa colpa sbiadisca. Ripromettiamoci, di fare cose, letture, articoli, facciamone un simulacro, un amuleto, possiamo, lo faremo, qualcuno più di me, qualcuno con più cura di me. Perché sono le cose ad avere una resistenza maggiore allo «sbiadimento», alla biodegradazione. La poesia, Pietro lo sapeva benissimo, ha tra i maggiori coefficienti di resistenza a questa dissoluzione; la memoria è molto più debole. Facciamo risuonare le sue parole, gli ultimi versi di Pietro sono «Del verbo vorrei/riconoscere il principio per dire/che dal principio non trovo/la parola». Vorrei tenere a mente questa poesia, tenerla con me sempre:

non essere nessuno se
non il nessuno che hai
sempre voluto alla stregua

di un volto estinto talvolta
presente di quella presenza
che è luce, ma di più luce

senza nevischio d’ombra.

Oggi qui a Bologna ha nevicato, il cielo era di un grigio sbiadito, un freddo bestia. Ho ripreso in mano il tuo libro e mi fa paura averlo qui vicino a me, ho paura di tutto quello che possa dire. Vorrei tante cose e tutte sono stupide, la più stupida di tutte, ti avrei voluto salutare, decidere arbitrariamente che era tempo di lasciarti sbiadire. Spedisco una lettera alla Sibilla.

Bologna, 5 dic. 23
Riccardo Frolloni

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La voce di Pietro

Parlare dell’amico Pietro Polverini mi porta davvero indietro nel tempo, alla sua Mamma, Maria Grazia, che fu mia alunna qualche secolo fa. Ebbene io Pietro l’ho conosciuto come autore e filosofo. Avevo letto i suoi lavori pubblicati in riviste accademiche, su Valduga e Tondelli. Il suo primo libro di versi, Indice sommario di sbiadimento, uscito per peQuod, poco prima della sua malattia, mi aveva colpito, così come la dedica scritta con inchiostro stilografico, come a volere lasciare un segno di “tradizione”. Ho già scritto su questo testo dove alcuni amici, lettori-complici, avvistavano “segnali” premonitori, quelli della dissolvenza. Ma io avevo conosciuto di Pietro l’altra faccia. Un volto e un sorriso non contratto, ironico, forse con una malcelata timidezza. Questo lato “energetico” mi teneva assieme a lui, mi corrispondeva, era l’altra parte di me. Utilizzai la sua disponibilità per presentare a Macerata la mia antologia, Poesia delle Marche – Oltre il Novecento, insieme ad un altro suo sodale, Edoardo Salvioni. Chi mi conosce sa che prima di laurearmi in Filosofia avevo abbracciato Medicina, a Perugia, per dovermene poi, come Rutilio Namaziano nel suo De Reditu, rientrare forzosamente a Macerata. Ma dentro, e ancora oggi, mi era restata la passione, la curiosità, quella di interpretare i sintomi e il linguaggio del corpo come un grande testo da leggere. Quella parte di Pietro gemellata a me, rispose. Da qui una lunga vicenda di pizze e birre, di cenette e di incontri, dove l’oggetto interno del discutere era il “sintomo”. E Pietro era una bufera sintomatologica. Una notte, era presente una amica farmacista, facemmo a gara nell’elencare molecole capaci di ridurre la depressione e l’ansia. Fu una battaglia tra giganti: Pietro aveva in mente “anche” le formule stechiometriche, ovvero la scrittura della molecola more geometrico, si direbbe un indice spaziale. Mentre scrivo mi balza in mente che tale ricorrenza è presente nei suoi testi. Ma alla fine voleva ridere, ero capace di farlo ridere come la mamma mi ricorda. Provai (con me stesso e con lui) questo antico “farmaco” capace di dissolvere dogmi e a volte fobie. Insomma la funzione dell’ironia. Poi il coma, quel misterioso coma dopo una operazione al cervello tutto sommato riuscita. La mamma mi chiese, avendoglielo chiesto i medici, di inserire qualche vocale per Pietro. Per un breve periodo Pietro reagì. Mi ero studiato i testi da inviare, alcuni buffi, altri ordinativi. Mi dicevo: se prende l’avvio forse ce la farà. Non fu così. Ma io credo, confesso, che è mia soggettiva opinione, che nessuno muoia, ma si trasformi in energia, in suono, quello stesso che Dante descrive all’arrivo del suo viaggio in Paradiso: “Così vid’io la gloriosa rota\muoversi e rendere voce a voce in tempra\e in dolcezza ch’esser non po’ nota\se non colà dove gioir s’insempra”. Tra noi e loro, a volte, qualcuno “sente”. Uno di questi è Pietro che non è “polvere” ma suo sbiadimento in suono e voce. Se poi penso all’amico mentre suona magistralmente il suo pianoforte il circolo si chiude.

Guido Garufi

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Caro Pietro,

te ne sei andato senza avvisare, in modo silenzioso. Qualche volta mi domandavo che fine avessi fatto, non vedendoti più gironzolare; poi mi hanno raccontato. Questa non dovevi farcela Pietro, ci hai lasciato tutti nello sgomento, sai? Te ne sei andato dopo un lungo agonizzare che spero, almeno per te, sia stato indolore. Te ne sei andato con la tua solita compostezza, senza troppo rumore, come sempre facevi tu e come io non sarei capace di fare. Mi hai fatto riflettere su quanto sia gracile la vita; su come, anche se non ci pensiamo mai, sia sfuggente, ballerina e traditrice. Gioco strano, a cui non possiamo fare a meno di giocare.

Ti scrivo questa lettera dalla mia stanza, in una fredda notte di dicembre, battendo la tastiera come fosse una condanna. Nel cuore ho un certo dolore. Strani moti nell’animo, subbugli, pensieri sul vivere e morire. Chissà se ci è lecito sperare in una trascendenza dell’anima, dello spirito, oltre le spoglie mortali, o se siamo irrimediabilmente relegati a compartecipare alle passioni e al dolore di questa vita, tutti qui, tutti insieme, senza neanche parlare troppo della nostra condizione, per finire poi, un bel giorno, in un sordo nulla. Non ho risposte Pietro. In cuor mio, però, spero tu ne abbia trovate; spero tu sappia, perché io ho tanta voglia di ascoltare.

Spero di rivederti e riabbracciarti presto, chiacchierare e cazzeggiare ancora un po’, anzi no, meglio per sempre.

TI saluto amico mio, spero che questo non sia un addio, perché a me, lo sai, han sempre fatto schifo gli addii.

Ti saluto amico mio, aspettami, dai, non scherzare.

Riposa in pace, caro amico mio.

Amen

Virgilio Gobbi Garbuglia

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Il primo freddo

Si incomincia davvero ad appartenere a un posto quando, in questo posto, si perde una persona a noi cara. Ci siamo conosciuti nel 2017, proprio in questa biblioteca da dove sto scrivendo questo tuo epicedio. Tu ti stavi per laureare su Amelia Rosselli, io me ne stavo qui, a leggere Nievo e Saul Bellow, prima di decidermi a cambiare la mia, di tesi. Allora indossavi spesso la felpa verde del Sassuolo, quella felpa che, in seguito, avresti messo soprattutto per andare a giocare a tennis, quando ci incrociavamo, di ritorno dagli allenamenti, lungo Corso Cavour o all’altezza del Bar Narciso. Me ne starò ancora per un anno qui, poi si vedrà, forse compreremo una casa qui, quando non sarò più studente, che, come ripetevamo spesso, è più una condizione dell’anima, che uno stato sociale. L’università è un ospizio, una copertura che esiste per i diseredati del mondo, dice a un certo punto David Masters al suo amico William Stoner. Alcuni dei posti che frequentavamo, non ci sono più, o hanno cambiato volto e gestione. La tua assenza ha preso da tempo una specie di duplice natura topografica, per metà assomiglia a un velo un po’ opaco di bruma che si posa sulle facciate dei palazzi, per l’altra a uno strato sottile, una sorta di doppio fondo adagiato sul rovescio dell’asfalto, sull’acciottolato delle strade e dei vicoli, come la polvere stipata sotto il letto, che non si sa mai bene da dove provenga, come si formi, si accumuli mano a mano così tanta, se non dal nostro stesso esserci, vivere, respirare, muoversi. E poi sparire. Non te ne sei andato per insegnarci a vivere. Te ne sei andato, è questo il fatto. Stavo per scrivere qualcosa di contorto e di posticcio sul vuoto che si può rovesciare nel pieno e sulla percezione, discreta eppure persistente, che fonda, tramite un processo di sottrazione, la nostra, le nostre identità personali, almeno da un certo momento in avanti. Ma non mi venivano le parole, e quindi mi sono fermato un attimo e ho iniziato a leggere l’esercizio di ammirazione che Cioran dedica a Samuel Beckett. Mi parlavi spesso di Giorni felici. Sto al punto in cui Cioran scrive della fede per le parole che aveva Beckett e del suo scoraggiamento quando sentiva che queste parole lo stessero tradendo, o che fosse lui a non credere più in loro, quando avvertiva che gli stessero sfuggendo di mano, sospettando che, in realtà, queste parole, nessuno sarebbe mai riuscito a enumerarle, prendendone nota, e poi a rammentarle, dopo averle apprese. Come nell’ultima poesia del tuo libro. Qualche istante fa mi è passato davanti un ragazzo, è un po’ più alto, più sottile e porta i capelli più corti dei tuoi, ma indossava un giubbetto di colore e di foggia molto simile a quello che mettevi quando arrivava il primo freddo. Per un attimo mi sei sembrato tu.

Simone Ruggieri

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“Sono a letto con la febbre, ho mandato un’altra”. Questo diceva, con vezzo ironico, un timbro di felice distacco, Anna Marchesini parlando di una sosia immaginaria che aveva mandato come sua emissaria, in una intervista televisiva su cui Pietro, quasi scusandosi di una sorta di delicatissima-dedicatissima insistenza nel riparlamene, tornava. Desiderava visitare un fondo dove erano contenuti alcuni testi inediti di sue poesie, che recavano il titolo “Fiori di fitolacca”, entusiasmo e ripromessa di missione, al solo sentirla nominare. Forse rivedeva in lei una sorta di controcanto, una sorella delle nebbie novembrine a cui tributava la sua venerazione: rarefatta ironia, svagato languore, sagacia frammista a tenerezza malinconica, ingredienti non certo estranei. Gradazioni di una tenuità che la voce e il viso di Pietro manifestavano, una letizia d’occhi dalle molte rifrazioni: dall’ironico, all’entusiasta, dal delicato allo sferzante. Il tutto condito dal felice puntiglio lessicale della sua voce, che nei momenti di ironia irriverente, rendeva persino la durezza di un giudizio tranchant, ferocemente fiera, sontuosamente ilare. Allora si esplodeva in una risata, o in conversazioni oceaniche, o perché no, in un litigio molto affettuoso.

Molte delle conversazioni con lui imbastite vertevano su un tema che oramai sembra quasi diventato un ritrito ritornello, una seconda pelle di un ambiente abituale ed allo stesso tempo estraneo: le angustianti pochezze, i giochi di prestigio della letteratura di oggi, assai comici gli attendenti e le leve, la magagna delle cose troppo umane, verso cui ci piaceva e divertiva non cedere all’ossequio. In questo, dove si differiva come si conveniva, Pietro aveva un entusiasmo e una volontà di sguardo, oltre che una serietà metodica, che rendeva il tutto sempre vivacissimo e fecondo di pensiero. Che si parlasse di un poeta che aveva il suo ego gigante quanto il suo naso che a suo dire “dovrebbe stare nei pomeriggi di Domenica in”, dei “fastidiosi corifei” pronti al cannibalismo della memoria di alcune voci autentiche ora non più qui, o di una rara edizione dei sonetti di Giacomo Lubrano, la vitalità incessante abitava, abita e continuerà ad abitare, traboccante investitura donata dal suo entusiasmo. Lui la avrebbe chiamata “la nota lieta oltre il resto che è da accertamento psichiatrico obbligatorio”.

Anni fa, nel 2014, ci scrivemmo per un qualche tempo rispetto a due composizioni musicali che Pietro aveva realizzato: “Da lutto a capo” e “Crisalide d’inverno”, per pianoforte e voce. Si parlava di Erica Mou e di Carmen Consoli. Ci piaceva l’immagine della crisalide del suo testo, convenivamo sul fatto che fosse come una camera vuota, fugace, una scelta di un attimo, in attesa della schiusura. Come se la membrana del bianco non fosse nient’altro che attesa, che la luce mostri tutte le sue specifiche ali, l’infinità del colore che solo il rifratto palesa, scindendo il fascio consueto delle cose col prisma della parola.

A Pietro piaceva unire momenti di ruvidezza e languore, climax e silenzio, una ferma attitudine, un poligono netto di senso e suono, con ampi passaggi in cui la melodia del pianoforte distendeva il canto, come una duna accogliente, vestendone la geometria volatile. Scriveva in una lettera di qualche anno fa: “vivo profondamente in conflitto con la musica perché non so mai fino a che punto può essere ascoltabile, fino a che punto non è una collezione di tentativi di autoriconoscimento”. Le parole sono sempre emissarie. Il grosso delle volte traditrici, raramente stanziali, il grosso delle volte ciottoli di un fosso che ha nome di enigma del vivente, tentativi. I “tentativi di autoriconoscimento” di Pietro non sono nel vano, o negli schedari, nemmeno nella consueta pratica filologica che egli applicava con rigore e verve a qualsiasi cosa, ma riverberano in parole di chiarezza rivelativa e indimenticata precisione. Nell’amore di chi lo ama, in ogni suo amico e prossimo: sono gesto tradotto, gesto che traduce, mano che si protrae oltre, continuando a porgere il suo tatto oltre il buio.

Edoardo Manuel Salvioni

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Pietro

A pescare un ricordo, ci si affianca a un gesto, un fatto, una serie di eventi. Così, dentro un chiaro barlume di riconducibilità, penso a Pietro.

In una sfera che assorbe ed espelle, lo vedo ancora sorreggere quel sorriso che affonda la flotta.

Ora in libreria e leggere dei versi della Rosselli.

Si riunificano i punti per non conservare i pericoli di un campo aperto e chi resta a sorvegliare i tremori, caro Pietro, non può dire con esattezza fino a dove si può spargere per reclamare.

Come vorrei trasformare tutti i rimandi passati in un presentimento, invertire i messaggi e riaprire lo scambio.

Mi dispiace, l’incisione dell’avrei dovuto e dell’avrei potuto distoglie parte dei momenti d’intesa, ma, nella prossimità di ogni incontro passato, resta quel passaggio di stupore che lega le esistenze nella corrispondenza. Lì, nel linguaggio di una spalla coinvolta in un abbraccio.

Simone Sanseverinati

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In memoria di Pietro Polverini

Un anno fa, nel nostro carteggio digitale e mite, mi hai scritto che ce l’avresti messa tutta e so bene che lo hai fatto. Però è andata così, come non doveva andare. Per noi che restiamo c’è solo il ricordo a stemperare il dolore. Tu, carissimo Pietro, ci hai lasciato l’orizzonte azzurro della tua giovinezza e un buon numero di versi da leggere e rileggere pensando al tuo sorriso sibillino (dei monti Sibillini). Per caso la comunione nostra non è mai stata limitata al mito della scrittura, noi condividevamo la strada tutte curve che da Fiastra, passando per la dritta di Pian di Pieca porta giù verso Macerata dove ci si incontrava di tanto in tanto nei luoghi a noi consoni all’interno delle mura, su per le scale di Filosofia o dentro i mattoni degli Antichi Forni. Rappresentavi pienamente lo spazio che ti circondava ed eri l’onda costante e generosa che incredibilmente resta impressa nella sabbia. Ora ci manchi nell’intimo delle tue parole, del tuo sguardo limpido. L’immagine di te che leggi con l’aria trasognata di fronte al pubblico della poesia che ti era specchio ci resterà per sempre impressa, sarà memoria. Da sbandati e sopravvissuti ce la metteremo tutta noi ad esserti testimoni; porteremo per il mondo le tue poesie, le leggeremo, le faremo conoscere. Resterà comunque un vuoto che non potrà essere colmato, un cenno di commozione che si stempererà guardando e riguardando le foto di quando ci regalavi l’alchimia delle parole e del pensiero.

Alessandro Seri

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In punta di penna

Piovesti in casa mia un pomeriggio che non saprei ricordare che mese fosse, né che anno. Ricordo solo che arrivasti con il comune amico Gabriel Bobutanu che armeggiava per diventare regista e volevate intervistarmi. Doveva essere il primo capitolo di una lunga storia di voci e di poeti. Non so se poi andaste avanti col progetto. A me bastò conoscerti (e ne sarei stato lieto anche senza intervista). Sguardo acuto da montanaro, ritrosia lacustre, ma sorriso azzurro come l’ampiezza del cielo e dell’umano. Un ragazzo avanti, quanto a coscienza critica e speculazione intellettuale. E contemporaneamente un ragazzo all’antica: educatissimo, gentile, ineccepibile. Con cui spaziare, nei discorsi, da Sereni alla città, dalle ragazze alla poesia, dagli editori ai farmaci. E sempre con puntuale vivacità.
Ci incontravamo quasi ogni giorno, al bar o per la strada di casa; tu di ritorno dal campo da tennis, sport che praticavi con passione e tenacia. Il nostro dialogo era semplice: poca poesia (grazie a Dio), qualche felice battuta (perché eri anche un grande ironico) ed anche qualche dolorino nuovo se, come lezione vuole, non v’è letterato (e non facevamo certo eccezione noi due) che non coltivi qualche malattia.
Poi arrivò quella vera, purtroppo. E davvero non avrei mai creduto possibile che fosse in grado di disarcionarti, come invece è accaduto.
Ci sono tragitti brevi che recano in dote una loro sazietà, anche se lasciano una ferita sanguinante in chi rimane. Io sono certo che vivi in un luogo differente e bellissimo, luminoso come i tuoi occhi verdi che brillavano. Sono certo che – sornione – ogni tanto ti volti e ci sorridi, ma poi prosegui il tuo cammino di libertà. Adesso vorrei intervistarti io, ma non serve: la poesia, tu lo sai bene, è lì con te.

Filippo Davoli

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