L’estate di Nuova Ciminiera con GIAN RUGGERO MANZONI

IL TANGO DEI MANICHINI

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Fin sotto l’entrata più alta, del mito, egli coglie la vertigine.
Carico di molecole, atomi, cellule, ammassi nervosi, che la scienza finora
ha chiamato con nomi, ma di cui nulla si sa del perché, del dire,
della voce o del segno che ne sgorga, vicino a noi, lontano da noi,
per raschio di femore o costola, di uomo trasformato in donna,
che solo così può divenire genesi votata all’eterno, con palpito, con ansia,
con tenaglia nel ventre di chi produce luce, poi ombra, poi luce, poi di nuovo
il creato, nel bagliore del paradiso o dell’inferno, o in quell’incompiuto
egli, ingigantisce il gusto del suono, il profumo della parola, il tocco della grafite,
l’udito della lingua, lo sguardo della mano, l’intuizione della vita
e quella mescolanza di elementi e di combustioni.

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Dal suo seno sgorgava latte, e latte dai genitali
del maschio e della femmina, uniti in un inguine di effusioni.
L’ermafrodito, l’eterno incarnato, ha mani da gigante per cogliere le strutture.
Egli… o lei… incrocia passi di tango sui legni del cantiere
per dare compiutezza al suo essere, muovendosi con sensualità e disciplina
assieme.
Fu oracolo per millenni, oggi medico che cura le piaghe da decubito,
le ulcere dell’incontinente, l’enfisema degli ansiosi.
Nell’esedra del tempio è posto un vaso, di sangue e azzurro i suoi
colori.
In esso dimorano i bambini mai nati del pianeta, e il boia guercio del re
o dell’imperatore.
Tra quei fanciulli chi prenderà il posto dell’esecutore, chi avrà
la sua fune, la mannaia, il cappuccio.
A volte si rimane stupiti da ciò che propongono le architetture.
Quel che pare curvo diviene asta conficcata nel cuore,
e ciò che dritto sembra penetrare, invece si adatta a insenature,
svolte, ascensioni, quindi a fisiologiche morfologie umane…
a labirintici piani di comunicazione … poi a un’auto fecondazione
vissuta con la naturalezza, della chiocciola o del mollusco.

 

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Aggrappato alle reti, il pescatore di misteri traina la scialuppa.
L’androgino è fra i tanti, metamorfosi di ciò che fu diviso, ma ora
nell’oltre congiunto.
È sua visione la creola che custodisce i capelli, intrisi di profumi di cottura.
Così il nero e il bianco riuniti, ché sulla sua pelle
traccio mappe con lo stilo, com’è la terra vista dalle stelle.
Che sia la bellezza quel solo dono, fragile d’origine, che ci viene concesso?
Al che lui mormorò estraneo: “Tutto è già dato; portatemi dei veri eroi
e labbra carnose da assaporare… datemi cavalli da montare, e prati di erica su cui stendere tovaglie. Datemi vino e acquavite in abbondanza, e formaggi e pane, ché, appoggiato alla colonna, ammiri il panorama. Datemi di voi l’attenzione, che possa insegnarvi che nulla si vince, se non il marmo e quella pace; nulla si conquista,
se non un briciolo di gloria, poi il freddo, delle tante rimembranze.”

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Per scrivere, o tracciare su carta, delicato è usare vecchi appunti,
o schizzi, o fermi d’idee, che risalgono a infiniti anni prima, quando giovane
credevi che il pensare poi il dire potesse risolvere l’esistenza
in un tratto di penna, in un graffio, in un gesto che ti rendesse
memoria e passaggio di presenza.
Ancora conservo quaderni e album di quando mio padre viveva.
Incorreggibile ricercare (a vita) un assoluto
quando l’assoluto è nel momento
che non raccoglie ciò che fu, o ciò che resta
della cenere che mani amorose
quel giorno spargeranno nello zefiro.

 

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Fin sotto la soglia… quindi… del mistero o del punto limite… fin sotto,
ai piedi del divino, o di ciò che reputiamo tale, egli sta
sempre ai piedi del sacro tabernacolo, dell’unico o dei tanti, del magico,
dell’inaspettato.
Sotto, nel ruolo che gli compete, genuflesso, inginocchiato, prono, ammaliato…sublimis… nel sub e nel limus… in quel che di obliquo, e mai retto,
la curva dell’universo compone ecco finalmente l’opera,
che esercita effetti sull’anima, poi spasmi nel corpo, svenimento, tremore,
convulsioni, o respiro, forse, tracciato in disegni o in profili di dita non più tue,
ma di angelo che insiste per dono consegnato, per altro, per ciò che sfugge,
per ciò che solo si avverte, ma non perdona, e mai reca compimento, e mai
reca (col supremo) una solida ingiunzione.

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“Forse che il più sublime esercizio dell’arte sia dare,
a ciò che sembra vuoto di senso, una ragione o, nell’illogico,
una passione da rimanerne ciechi?”

Il più sublime atto di disprezzo è la misericordia.

L’arte è il pareggiare i conti con colui che della tua diversità
ha sorriso, pensando che la vendetta mai potesse coglierlo…
mai potesse (di rimando) ferirlo.

 

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Che condizione abnorme e gravosa, l’essere umano. Che forza, nel segnare
la propria comparsa, la propria scomparsa, nel tracciare confini, nel cercare
di non perdere diario, consapevole di un nulla che incombe, a cui dare forma
con ciclopico orgoglio, a volte con superbia, poi col mea culpa, quindi
con lo sconforto.
Che mente, ha l’uomo, e che mente che mente quel blocco di materia
che sta entro il capo di cui non sappiamo nulla, se non le sue rivolte
o le assenze, per millenni dovute… per millenni nascoste… per millenni
disperse, nella melanconia delle comete.
Perché, e infine, il rendersi conto, l’essere nell’essere un occhio che vede l’altro,
oppure il sole, se non fosse già altro e sole l’occhio stesso, così come il cuore
non coglierebbe il bello, se non fosse già bello in sé, e sostegno di tale funzione.
Spazio di smarrimento e frustrazione, per dare primato al sublime sul bello,
quando il bello si lascia, varcata la soglia, superata l’entrata, scardinata la porta,
nell’oltre che investe di luce o buio, di accecante scoperta o di tenebroso e
inimmaginabile confronto.

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Avrete inteso che parlo di un mondo ferrigno, dove, se togli la lotta,
l’amore svanisce.
Abbi cura di te, pensa al nostro bambino, appoggia l’istrice imbalsamato
sul petto e getta l’orchidea nel pozzo, là dove ci baciammo quella volta
e poi giacemmo assieme, finalmente diversi per unione
ma uno, per discorsi e attenzioni.
Parlo di un mondo ferrigno… di un mondo che ti taglia e ti cuce
per darti piacere, per insegnarti il tramonto, per indurti al principio
o per sfruttare il sublime, quale pubblico insulto.

*
Guerre, carestie, catastrofi, vortici d’aria e maree
pare che la natura rendano estranea, altra, un migrare lontano
che riversa l’uomo in un angolo, non complice a un sistema…
ma l’uomo applica concentrazione e spalle curve, spalle di fatica
dorso, cosce, quale mulo da soma
e s’impone, contro un destino che lo rende infimo e ridicolo,
sgomento, senza senso, senza scopo, e, di certo, senza ragione.

 

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Solo così non esiste più orrore, non trema il labbro, il fiato non è più corto,
perché non hai più bocca, più polmoni, più materia che imprigiona… più corpo
che non seduce o si corrompe, ma solo spirito che avvolge, capovolto il nascere,
capovolto il morire, l’andare e il venire, la felicità e la prostrazione, il dominio
e il nudo rimorso dell’avere inseguito ciò che vano l’esistere impone
lasciata quella sorte, carezzato il silenzio, imbavagliato il rantolo,
finalmente muto… finalmente giunto, all’appagante ascolto di un colore.

*
L’assurdo spinge a cercare il bello, l’irrazionale il sublime
quale unica risposta al perdurante rimbalzo di domande
senza teoria e opinione.
Che condizione sospensiva, che continuo limbo
in cui l’oracolo acquista la funzione del laudano
quando la malattia si ramifica, sconvolge, appesta
e la vergine dei miracoli ha girato la testa
rifiutando anche il figlio, la gravidanza, la concezione.

 

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Gian Riggero Manzoni

Gian Ruggero Manzoni è nato nel 1957 a Lugo, dove vive e lavora. Pittore, poeta, scrittore e critico d’arte, ha fondato nel 1979-80 il movimento del “Visceralismo”.   nel 1981 esce a Parigi Science (verb total) et classicisme (continué), Manifesto poetico firmato da Manzoni e da sei intellettuali e artisti ebrei: Joseph Lebacarre, Isaie Toaff, Yacov Fesira, Nathan Ferrara, Max Argov, Samgard Funaro. Nello stesso anno incontra il pittore Omar Galliani, col quale inizia una proficua collaborazione. Allaccia i primi contatti con gli artisti della Transavanguardia, in particolare con Enzo Cucchi e Mimmo Paladino, poi con Nino Longobardi. Nel 1984, invitato dalla storica dell’arte Marisa Vescovo,  partecipa ai lavori della XLI edizione dellaBiennale di Venezia, diretta da Maurizio Calvesi, curando assieme a Valerio Magrelli la Sezione Poesia per “Arte allo Specchio”. Ha pubblicato per Feltrinelli, Scheiwiller, Campanotto, Moby Dick, Moretti & Vitali, Sansoni, Il Saggiatore, Crocetti, Skirà, Emede, in Argentina, Guaraldi e Matthes & Seitz Verlag, in Germania. E’ tradotto e pubblicato in Grecia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Uruguay, Argentina, USA e Spagna. Nel 2019 ha pubblicato due libri: Il risolutore, con lo scrittore e giornalista Pier Paolo Giannubilo, per i tipi di Rizzoli (finalista allo Strega); e il libro di versi Nel profumo delle catacombe (per i tipi de “L’arcolaio).   

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