DEL SILENZIO

Emanuele Franceschetti

Di Emanuele Franceschetti

 

‘In principio, è lecito supporre, era il silenzio’. E’ l’assunto con cui Ottò Kàrolyi, musicista e musicologo franco-ungherese, fa esordire un suo maneggevole e pregiatissimo testo di grammatica e teoria musicale. E l’assunto è netto, affascinante. Probabilistico e perentorio a un tempo. Tentiamo così di farlo nostro: la memoria si improvvisa in una corsa all’indietro, si rende elastica e volante, s’arrischia in un tempo-spazio che sente di non possedere fino in fondo. Ma il volo è un volo d’Icaro. Ci si schianta e ci si infrange contro un muro di tracce, nella partitura inossidabile dei segni del vissuto, nella tessitura rumorosa delle cose, nel contrappunto delle voci. Il silenzio non riusciamo a possederlo fino in fondo, se non al prezzo di una ricerca certosina, di una necessità, di una possibile ricostruzione: di una scelta. Ma in principio, dunque, era il silenzio: ancora prima del Verbo (ma la scelta terminologica non sembra soddisfare Faust, che tenta coraggiose ipotesi-variazioni sul tema: meglio ‘’der Sinn’’-il pensiero, o ‘’die Kraft’’-l’energia? O forse ‘’die Tat’’, l’azione?), ancora prima delle cose, del tempo. La storia muove da un silenzio ancestrale, e violandolo definitivamente lo pone in una condizione ‘altra’, distante, certo transitoria: l’epifania del mondo è benedetta nei rumori ( o nei suoni?), e il silenzio non può che essere, ormai, una prossimità ideale, una cesura, una condizione, un viaggio di ritorno.

Un silenzio ‘senza forme’ non è più possibile, questo è innegabile: la luce che ha trafitto il buio primordiale doveva avere già in sé il suono e la pesantezza, il corpo e la vibrazione del corpo stesso nell’aria. Non è più possibile un silenzio lontano dalle forme. Le forme che occupano lo spazio entrano in contatto con l’uomo mediante un codice che attiene tanto alla vista quanto all’udito: le forme ‘risuonano’. Tutt’altro che fanfaluche e sofismi: Le Corbusier, architetto (e intellettuale) tra più eminenti del Novecento, rifacendosi all’idea di acoustique paysagiste, non riesce a pensare lo spazio se non come ‘gioco a due’ fra visione e ascolto, annotando a più riprese che “le forme fanno rumore e silenzio; alcune parlano, altre ascoltano”. E dunque: un altro silenzio esiste, palesandosi come presenza –e non più come assenza- tra i segni. Come un ‘vuoto di segni’, e segno esso stesso. Nella sua dimensione psicologica (e psicagogica), e quindi attinente allo spazio interno dell’individuo, il silenzio si configura pressappoco in maniera speculare a quella del mondo e delle forme; impossibilitati al silenzio dell’assenza  –chiaramente possibile solo nella nullificazione della morte-, se ne cerca uno nelle presenze. Così il silenzio è il negativo dell’intima comunione con la coscienza e con la memoria, ad un tempo causa ed effetto della produzione di immagini, segni, lacerti, proiezioni. In un certo senso l’esistenza, possibile solo grazie all’ (in)causato e primitivo scardinamento del silenzio, dispiega interamente grazie ad un rinnovato ripristino dello stesso. Perché la vita possa  essere accolta –e di volta in volta, ritrovata e riscoperta- c’è bisogno di un ottimo udito: consapevoli, però, che il raccoglimento del silenzio non equivale quasi mai al vuoto ricreatore e pacificatore, quanto ad una generosa epifania di temi, motivi, comparse; ad esplorare una zona brulla, capillare, confusa.

Giorgio Vigolo

Il silenzio è un’esperienza filologica e spirituale, un ritorno alla totalità: lì soltanto l’uomo (e l’artista) può e deve rivolgere attenzione e coraggio. Da quella terra di memorie riaffiora una melodia continua, come nota Giorgio Vigolo, parlando della musica e dell’ascolto nel suo elzeviro I motivi della vita: ‘’ […] Ho pensato anche che i più veri e grandi musicisti di musica pura non cercassero altro che questo: ascoltare dentro di loro, riconoscere e fermare i motivi […]’’. Esperienza possibile, aggiunge, solo grazie ad un orecchio ‘’introverso, che si è separato dal mondo esterno, che si ravvolge in se stesso e ascolta attraverso il silenzio […]’’. Musica dal silenzio, segni emersi dal vuoto. Basterebbe pensare a Beethoven, e non aggiungere altro. Musica dal silenzio, e silenzio nella musica. Silenzio affidato alla partitura come una traccia, un segno riconoscibile: il respiro da affidare alla pausa per tramutarla in una sosta, in un ripensamento. O in una preparazione, in un raccoglimento. Il silenzio come possibilità, attrattiva. Come necessità di riposto, come una battuta d’arresto inevitabile.

Dopo le pachidermiche ipertrofie delle musiche dell’avvenire, dopo la ridondanza onnicomprensiva di partiture fittissime di motivi infinitamente variati e ricombinati (fare tipicamente tedesco..), alla vigilia del tracollo della vecchia Europa, qualcosa accade. Nelle partiture di Debussy riappare lo spazio bianco, vuoto. La densità cede alla rarefazione:  il non detto è parte integrante della traccia sonora, il silenzio è ora reale, realmente significante, la sintassi meno prolissa ed eloquente. E’ l’approssimarsi del Novecento, coi suoi dilemmi e le sue tragedie. L’arte cerca nuove vie, nell’inchiesta infinita mossa alla storia e a se stessa. Si interroga il silenzio, e il silenzio si fa significato, eludendo la ridondanza del tardo romanticismo e, in un secondo tempo, i grovigli delle avanguardie. Nel silenzio si cerca una voce che riabiliti il senso: ma l’uomo è spesso inadeguato a tal compito. Come Mosè, che esita di fronte al comando della voce che promana dal roveto, facendosi archetipo e cifra antica dell’uomo diviso tra terra e cielo. Anche il Moses di Schönberg esita di fronte alla voce del roveto, ma poi risolve: invano. Sic transit gloria mundi: i popoli hanno bisogno di verità subitanee, concrete. Né è legittimo biasimarli fino in fondo. Sul farsi ( e sul suo svilupparsi) del Novecento i roveti tacciono, gli oracoli restano muti. Ideologie, manifesti e Rappels à l’ordre non possono salvare l’uomo dal disfacimento cui egli stesso lavora pertinacemente.

Stravinsky, “Apollon Musagète”, manoscritto per pianoforte

Il silenzio, negli anni di guerra, è un segno evanescente, una memoria da rincorrere. Se i vuoti nelle partiture di Debussy erano il suono del silenzio prima del temporale, l’Apollo musagète di Stravinsky è una fuga disperata verso le geografie olimpiche ormai irrimediabilmente perdute. E’ una musica ‘silenziosa’, per dirla con Alberto Savinio, che amò con particolare vigore quella partitura: ma il silenzio degli dèi è malinconico, disilluso. E’ un silenzio di marmo, un’armonia posticcia. Un silenzio lontano dal logorìo delle forme e degli uomini: un silenzio senza memoria, inospitale.

 

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Emanuele Franceschetti (montegranarese nato ad Ancona nel 1990), laureatosi a Macerata con una tesi su Antonin Artaud, vive attualmente a Roma dove lavora come PhD Researcher in Storia e Analisi delle Culture Musicali presso l’Università “La Sapienza”. Affianca all’attività professionale in campo musicale, sia critico che artistico, una felice e ormai consolidata frequentazione della poesia (ha all’attivo due libri: Dal labirinto, L’Arcolaio, 2010; e Terre aperte, Italic Pequod, 2015 – introduzione di Filippo Davoli). Collabora stabilmente con Nuova Ciminiera.

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