LA VIGILIA DI NATALE. Un racconto inedito giovanile di Filippo Davoli

LA VIGILIA DI NATALE

I bambini aspettavano
trenini e bambole sognavano…
Papà Natale, si chiedevano,
perdonerà i miei capricci o no?
La sera sotto l’albero
il tuo regalo chissà cos’è…
le mani mi tremavano…
un foglio tuo col nome mio
e in fondo addio, amore  mio addio… 

Marco il malinconico ciondolava, da ragazzo, per le vie di Castello, canticchiandosi nella testa quella Vigilia di Natale di Mina, che sentiva come un vestito giusto per la propria identità, più nelle sonorità e nelle singole parole che nel significato delle frasi. Aspettare, sognare, chiedersi, essere perdonati… di che, poi? Forse di una riottosità caratteriale, con la quale si faceva scudo di fronte ai cinismi degli adulti che, fin da quando era bambino, gli sottolineavano i difetti e lo compativano – così intuiva lui – quando andava bene. Tremare… che è un po’ come desiderare senza avere la forza di un agire propositivo… e Marco tremava d’amore, desiderava l’amore, fin da piccolino, avendo cura di incartarselo negli occhi perché non gli avessero a rubare anche quella sete inesausta, quella delicata risorsa che ha nome speranza e che, pervicacemente, guarda avanti.

C’è chi sa ridere, anche delle cose serie; chi sa giocare alla corda, chi con la palla è un guizzo fulmineo che riempie di ammirazione le combriccole del pomeriggio; chi, infine, se capricciosamente chiede la pizza prima del pranzo o si sporca impunemente col gelato sulla camicetta fresca di bucato, può ottenere quello che pretende e pretendere anche ciò che non si può ottenere. Marco non era di questa specie. Assomigliava più ai cani, con cui peraltro andava d’amore e d’accordo; studiava come i ragni catturano le formiche, e come i piccioni invecchiano e poi muoiono, con un decoro inaudito, senza disturbare nessuno.

Il bambino Marco aveva preparato il ragazzo Marco ad essere un disincantato abitatore dell’adolescenza, ma non aveva saputo privarlo della speranza. Così, ciondolando, bighellonava per le vie antiche di quella cittadina, canticchiando la propria speranza sottovoce, sussurrandola crudamente, senza cedimenti di sorta al presente. Gli facevano eco gli archi che dissonando chiudevano quella Vigilia di Natale, dilatandosi in ogni dimensione dell’anima, sia che quel giorno si protendesse col sogno nell’oltre, sia che attendesse – da quelle pietre ricche di storia e di civiltà – riapparire le quotidianità che la storia sempre cela: acquattate nella polvere, Marco le scrutava, incise in un impercettibile bassorilievo; sembrano scorie e sono invece le tracce di chi, pure, su quei sampietrini poggiò i piedi; a quelle pareti porose strofinò magari un gomito mentre rientrava a casa dalla spesa, oppure le mani, accarezzando idealmente una speranza.

Una speranza, già… che ignara andava a ricongiungersi a quella di Marco, mentre nello stesso punto del muro, altrettanto casualmente, avvicinava i polpastrelli annullando nel tatto secoli e contingenze. Accettava di rientrare nel presente quando si avvicinava al portone sgangherato del palazzo di sua nonna. Era un po’ fatiscente, con una vistosa gobba sul frontespizio, e all’interno conservava un odore inconfondibile, laddove – tra un giro e l’altro dello scalone – giaceva una cassapanca grigia e le mattonelle improvvisamente si coloravano alternativamente di rosso vinaccio e di bianco. Quindi si continuava a salire, per gradini sempre più erti, fino a quella che un tempo era la soffitta, ideata come una sorta di piramide, con un’ulteriore scala addossata alla porta; sulla sommità un minuscolo pianerottolo dal quale si accedeva a due camere da letto, basse e ben adornate, coi travi in vista, arricchite da finestrelle che sembravano quelle delle fiabe e che aprivano su tetti e terrazze. Nella stanza un po’ più grande, quella di nonna Rina, troneggiava uno splendido comò, su cui riposavano una bella foto in bianco e nero di suo marito, il Conte Pirro, e a fianco una teca di cristallo con dentro bei fiori bianchi finti. Dirimpetto, il letto a barca della nonna, l’inginocchiatoio con sopra il crocifisso di legno scolpito a tutto tondo, curato in ogni segmento del corpo del Cristo, anche sulla schiena che, pure, non era di certo visibile se non dietro studio attento dei particolari; a quel Gesù altri bambini, in precedenti generazioni, avevano staccato – senza malizia – qualche dito dei piedi. Più in là, dove il soffitto inclinava, restava, a dispetto degli anni, un lettino più piccolo che Marco, sorridendo, riconosceva come suo. Dall’androne si poteva poi scegliere di scendere, sulla sinistra, per un’altra scala, che apriva al salottino e, sulla sinistra, in un biancore che profumava di latte e di spezie, alla cucina e al terrazzino; incuneato anch’esso tra i tetti, aveva incastonato su una parete un lavandino in pietra; in quel quadratino di aria e di cielo, sia in primavera che in estate, coi cuginetti, da piccoli, si divertivano a preparare la colla, a ritagliare dai giornali le figure che poi attaccavano sul bugnato che correva tutt’intorno, ad attendere Pisolo e Gri-grì, i due gattoni della nonna, quando facevano capolino provenendo da chissà dove.
Dove se n’era andata, nonna Rina? Il silenzio incantato di quel buco di casa in capo al borgo sembrava ricondurla. Da quelle anguste finestrelle si volava un po’ via, come scartando un regalo della memoria…

Nei giorni che seguirono
con i trenini che correvano,
correvo anch’io cercando te
in tutti i posti conosciuti insieme a me.
Ed era l’anno nuovo ormai:
qualcuno disse “L’ho visto io”,
andava verso il ponte, sai…
era Natale, c’era la neve,
mi ha detto “Sì, non dirle che ero qui”…

Il bambino Marco non era uno che cercava. Preferiva sedersi sulla sua vita ad aspettare, in una sequenza di ore di cui non conosceva l’entità, il giorno che la sua speranza, senza codificarglielo, gli assicurava sarebbe giunto. Di anno nuovo in anno nuovo, di Natale in Natale, di estate in estate.

La bici no,
trenini no
bambole no…
io voglio solo lui…

E all’interno di quei giorni qualunque, all’imbrunire, sempre il tramonto tornava a provocargli la doppia reazione di un accarezzamento e di una commozione segreti, in quella triade di “no” che solo Mina sapeva cantargli dentro; succedeva sempre così quando, ormai ventenne, stringendosi in un maglione di lana sui bermuda, attraverso i viottoli pietrosi e ripidi che si allungano dentro il borgo antico, Marco riconosceva un odore tipico, familiare, di erba asciugata da poco, pungente sulle ginocchia, in quel silenzio appena solcato da suole anonime, nelle prime ore delle domeniche piovose. Si ricordava dell’infanzia. Nascevano in quel freddo lieve pensieri in versi che dopo, a casa, tornava a cercare dentro di sé per trascriverli; il più delle volte, in realtà, addomesticati, più blandi di come li aveva percepiti; talaltra, invece, avevano un ritmo così potente e soggiogante da vincere il trascolorare degli attimi ed arrivare indenni a depositarsi sulla carta:

Oh, luce che bagliori lentamente…
quanto tempo è passato nel segreto
degli odori domestici, di travi
che un dissesto di topi mette a rischio…
Tutti già morti, gli altri; il loro soffio
torna talvolta nelle mezze stagioni
e parrebbe, a vederli, come un refolo
come fermo nell’attimo, credendo
che con loro si fermino le storie
che la  memoria forma. Sul sagrato…

Gli era piaciuta quell’idea della mezza stagione, in cui si riassumeva la maturità anticipe in cui si sentiva ed anche quel clima anomalo per l’estate; e ancora quell’immagine del sagrato, come una specie di sosta nella vita animata dalla sacralità dell’attesa, il cui valore – capiva – non era inferiore in nulla a un’esistenza totalmente agìta. In questo senso, lo seduceva fortemente la possibilità della poesia di concentrare e densificare i significati delle parole. Poi, una volta esaurito il flusso benefico della scrittura, tornava con la mente alle forme della memoria: la sera si stava al balcone a contare porcelle di Sant’Antonio, sulle crepe del muro. Talvolta si scendeva in strada, sul muròlo che recingeva l’orto;  più tardi preferirono il giardino: superato il primo spiazzo di ghiaia, su cui si stendeva un velo di vite americana, c’era l’orto vero: era piccolo, a rivederlo oggi, coi suoi cespugli di rosmarino, ma era un mondo a sé: l’ortolano ci piantava carciofi e cipolle, e i bambini andavano a sognarci.
Certi giorni Marco era il chirurgo che asportava la resina dall’albicocco; certi altri, con un attrezzo fatto per cogliere i fichi, alla cui sommità svettava una corona, con un asciugamano intorno al collo, giocava a fare il re. Certi altri ancora, innaffiando, seguiva i rivoli dell’acqua sulla terra, immaginando che fossero la Storia universale che si snodava e che un bel giorno, al massimo della sua espansione (una pozzanghera) avrebbe finito per ristagnare e per sparire.
Una volta, con le cuginette, trovarono una pantegana morta, che se la stavano mangiando le formiche; la seppellirono, scavando con le palette del mare una piccola fossa sotto un rotondo cespuglio dall’altro lato di casa, forse più per orrore che per pietà. Della pantegana rimaneva intatta la lunga coda e un dente, nella bocca mezza aperta, come quando si muore per un imprevisto, come sigillo dell’ultimo respiro, orma dell’affanno finale: quell’attimo fissato là, in quel dente che un giorno predava e oggi segnava invece la chiusura di un tempo, una pagina nuova. Posero a memoria del tumulo una piccola croce di cartone; si cominciava allora, di fronte agli sgomenti della  vita, ad affrontarli sotterrandoli in fretta; tacitando semmai la coscienza con educati rituali di superficie, perché far sparire la morte è un po’ dimenticarsi pure del senso della vita, anche nell’inconsapevolezza di scelte infantili, solo male interpretate dagli adulti.

Quando, insomma, nei mesi dell’afa, qua e là arriva una giornata d’acquazzoni, l’aria un po’ fresca che li segue ha un odore particolare, quasi di muffa. Il cielo grigio, compatto, preme sui sampietrini delle strade e il desiderio di coprirsi almeno un po’ si fa tutt’uno con le case chiuse ed assonnate; qualcuno passa col quotidiano sotto il braccio ed ha generalmente buoni intenti nello sguardo, tanto da trasmetterti una rinnovata energia. Quando capitano giorni come questi, all’atto di abbracciarsi nella giacca per il freddo, si ha come la sensazione d’essere un’altra persona. Lo stesso atto di cingersi, mentre qualche altro ci incrocia indifferente col suo buon passo di provincia, magari pestando più del dovuto per sbrigarsi, sottolinea che tra noi non vi sono tracce comuni : è un’altra vita, un’altra storia, altre abitudini, altri nomi: “Roberta mi ha regalato questi dolcetti per i bambini, ancora dormono?” dirà alla moglie rincasando, e aprirà l’armadio per posare la giacca nel posto a lui familiare: le sue consuetudini, i suoi volti, i suoi luoghi… Ha la casa con le stanze disposte lungo il corridoio, oppure vive solo in un monolocale: allora accenderà la radio per sentire le notizie e confrontarle poi con la tv…
Lo incrocio e non mi appartiene: ma fa freddo, e il freddo mi richiude su me stesso, andando per altre strade con me stesso, forse verso me stesso.
Non mi appartiene, ma lo incrocio: e forse di me immaginerà che mi stringo nella giacca solo perché ho freddo, e che sto andando a sbrigare chissà quale commissione; o semplicemente sto ammazzando il giorno perché piove e non c’è altro da poter fare.

Marco giocava e rischiava, con quelle che lui chiamava “reveries”: nelle città che visitava, alla vista delle persone, si immaginava d’essere di là: parlare un altro dialetto, fare un altro mestiere, amare un’altra persona, confidarsi con altri amici. Qualche volta peggiorava il gioco, immaginandosi in visita alla sua città: incrocia la persona della sua storia d’amore migliore e quella non lo conosce, lo ignora;  ma neanche lui la conosce, così da ignorarla pure lui.
Gioco tremendo: così lo straniamento prendeva piede in Marco che, a un certo punto, decise finalmente di non concedersi più a quei presunti spassi, dai quali a volte si rischia di non saper tornare.

C’è un giorno per tutti che arriva: c’è un giorno segnato nel dolore, che prova e sfianca quasi del tutto, ma quando si sentono le forze abbandonarci, il buio si dirada come per incanto e torna il sole. Nasce quell’altro giorno segnato, il giorno dell’incontro, della fuoriuscita da sé. In esso domina lo stupore, l’incanto, la sorpresa. Marco, fatalista coi piedi per terra, oggi lo assaporava piano, più che altro godendolo lontano dalle belle tentazioni del domani, gustandolo come un dono, come un magnifico regalo di compleanno.
– C’è un tempo per ogni cosa… –  si ripeteva sillabando quel versetto dell’Ecclesiaste a cui allegava, spaziando in secoli interi, i versi conclusivi di una poesia di Cucchi:

perché c’è un arco chiaro, un’ala enorme che ci tocca dentro, e io divento quest’abulia sospesa e questo guscio pieno di fessure, ma è una sensazione molto bella, qualche volta! – e provava  un sussulto come di luce.

Filippo Davoli
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