“La ripetizione dell’esistere”. L’esile mito di Sereni raccontato da Remo Pagnanelli

di Ezio Settembri

Cominciare la mia collaborazione con Nuova Ciminiera scrivendo de La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni, Scheiwiller, 1980, la tesi di laurea di Remo Pagnanelli, significa seguire una delle più lucide e complete analisi sull’ “esile mito” di Sereni e accostarmi al mito di Pagnanelli, fortunatamente riscoperto, come poeta, due anni fa, per il trentennale della morte.

La pubblicazione di Quasi un consuntivo, Donzelli, che raccoglie gli Epigrammi dell’inconsistenza, L’orto botanico e Preparativi per la villeggiatura, costituisce il necessario riconoscimento per uno dei maggiori poeti di fine secolo, sebbene l’operazione non sia affatto esaustiva, anche solo sul versante poetico, visto che dal libro sono escluse, tranne il poemetto L’orto botanico, tutte le raccolte pubblicate dall’autore in vita (Dopo, che contiene proprio Quasi un consuntivo, il componimento che dà il titolo al libro, Musica da viaggio e Atelier d’inverno). L’auspicio è quello che non solo vengano colmate queste incomprensibili lacune sul poeta, ma che a queste si accompagni anche una riscoperta della sua attività di critico, per la assoluta irreperibilità del saggio di Scheiwiller, del postumo Fortini (Transeuropa 1988) e degli Studi critici sui poeti del secondo Novecento, a cura di Daniela Marcheschi. Due importanti ricognizioni, sul poeta e il critico, sono state pubblicate per il decennale e il ventennale della morte: Annuncio e Azione. L’opera di Remo Pagnanelli, pubblicato per la rivista Istmi dalla biblioteca di Urbania nel 1997; In quel punto entra il vento, Quodlibet 2009, a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, che raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Macerata nel 2007.

la copertina de “La ripetizione dell’esistere”

In tempi in cui il problema della critica sulla poesia, e della critica letteraria in genere, si pongono con estrema evidenza di fronte al proliferare delle pubblicazioni, al caos internettiano e al dissolvimento delle poetiche nei nuovi autori, il rigore critico di Pagnanelli costituisce un esempio raro, un vero e proprio metodo di esegesi sugli autori della contemporaneità. Lo conferma Alvaro Valentini già dall’introduzione, notando come quello di Pagnanelli non sia un Sereni “nuovo”, ma “strenuamente messo a fuoco” da una lettura e rilettura dei testi e della critica su di lui. Sorprende, già dal primo capitolo, dedicato alla formazione giovanile del luinese e a Frontiera, la completezza con cui Pagnanelli ricostruisce il rapporto del poeta con la cultura del suo tempo.

Una ricostruzione da cui partire per sorreggere l’ipotesi del “romanzo”, del “libro unico”, ipotesi anche insolita per chi non conosce la critica su Sereni, un autore generalmente recepito per i suoi diversi momenti poetici, per la rottura che costituisce Gli strumenti umani rispetto ai due libri precedenti e a tutta la poesia italiana del Primo Novecento. Pagnanelli non disconosce certo questa rottura, ma rintraccia un filo conduttore, un continuum che lega opere anche molto distanti cronologicamente, attraverso una serie di rimandi, riprese e autocitazioni.

Innanzitutto l’elemento originario che consente di comprendere l’opera sereniana è la sua lateralità rispetto all’esperienza ermetica. Si tratta, dunque, per Pagnanelli, di fare i conti con l’ermetismo, importante in Sereni più sul piano linguistico (egli mutua dalla “lirica pura” il ricorso all’analogia, alla sinestesia, ecc.) che culturale, dove, per stessa ammissione del poeta, ha pesato di più la scoperta della letteratura americana, Hemingway su tutti. Sereni si aggancia cioè a quella sfiducia verso una poesia troppo elitaria e a quella necessità di comunicare condivisa dai post-ermetici, lontani dai riferimenti cari ai fiorentini, Rilke e i simbolisti, vicini a lui per sensibilità e qualità poetiche, non certo per ideologia. E se il poeta di Luino si inserisce nella dimensione europea aperta dagli ermetici, in lui l’Europa non rimane mai un fatto esclusivamente letterario: basti pensare alla consistenza fisica dell’Europa nel Diario d’Algeria, la grande figura materna (“Europa Europa che mi guardi/scendere inerme e assorto in un mio/esile mito tra le schiere dei bruti”, Italiano in Grecia). Non va dimenticato, puntualizza il Nostro, quanto Sereni sia legato alla Milano di Corrente, più che alla Firenze di Frontespizio; legato a una tradizione storica illuministica e a contatto con la vita sociale, che concepisce l’impegno culturale come presa di coscienza politica. Corrente collaborò certo con gli ermetici fiorentini, che ebbero il merito di sprovincializzare la cultura italiana, non di renderla capace di opporsi al fascismo. E’ dalla concretezza insita nei lombardi che deriva la pregnanza realistica dei luoghi della geografia sereniana, così distanti dal rischio di astrattismo, fredda metafisica e “trobar clus” di una parola a volte ridotta alla pura qualità fonico-musicale, eredità simbolista raccolta a Firenze.

Remo Pagnanelli

Ma quali sono gli autori di riferimento per Sereni? Pagnanelli non esita a fare i nomi di Gozzano e Montale, la loro sordina antidannunziana, il dubbio e lo scetticismo, nonchè la disponibilità a subire la storia, ma con un atteggiamento più responsabile nel poeta di Luino, sempre tentato dalla fuga nell’idillio e sempre autocostretto a rientrare nel “pubblico”, a rendere con la poesia una testimonianza umana e storica (esplicitamente nel Diario d’Algeria). Senza costruirsi una difesa ideologica dagli eventi, senza un’idea preconcetta di poesia, il poeta scende nella disperazione più cupa, travolto dagli eventi della guerra e dal grigiore della società capitalistica, affidandosi alle accensioni improvvise, ai capovolgimenti gioiosi degli endecasillabi sull’amore e sull’amicizia (Gli strumenti umani).

Detto della sua formazione, Pagnanelli individua poi nella metafora della frontiera un elemento ricorrente nelle tre opere in esame: esplicito nella prima (un “sentimento della frontiera” per collocazione geografica, a Luino, e per la chiusura antiidillica della vita negli anni 30 in Italia); superata dalla guerra, ma insieme frontiera dell’esclusione e della non-partecipazione alla vera storia; frontiera risorgente in altre forme nelle delusioni del dopoguerra. L’unitarietà del “romanzo” viene ribadita nel momento in cui il maceratese invita a leggere Frontiera, l’opera giovanile apparentemente, in alcuni tratti, acerba, à rebours, dissipando gli equivoci critici di chi lo definiva un canzoniere di amore e morte di sapore decadentistico. Salvo alcune scorie ermetiche e cadute in un’ispirazione letteraria, il meglio del primo libro è nei continui trasalimenti e premonizioni che increspano il lago dell’idillio lombardo, nell’angoscia e il senso di precarietà che si manifestano nella veste naturalistica della bufera, di un vento che infuria sul lago. Non manca la vena felice, espressa in colori indimenticabili (Canzone lombarda), “poesia di giovane felice e malinconico (dunque più felice)”, scrive Pagnanelli. E poesia che ricicla i detriti della vita personale (luoghi e accadimenti) per farne i simboli di una situazione allargata ed esistenziale (la lezione di Banfi, che introdusse l’esistenzialismo in Italia).

Se anche per Sereni “memoria non è peccato finchè giova” (Montale), finchè cioè non diviene un gioco intellettualistico e consolatorio, nei migliori esiti (Terrazza, Temporale a Salsomaggiore) si insinuano le minacce che già chiudono il tempo della giovinezza, la stagione dell’idillio, e da una dimensione esistenziale li aprono all’ineluttabile tragedia storica del Diario d’Algeria, eccezionale documento storico, oltre che opera di poesia. Pagnanelli insiste sulla continuità tra i tre libri, sulle poesie che, anche su un piano cronologico, di prima stesura, si incrociano e sul legame che si crea tra la vicenda giovanile di Frontiera e la dolente maturità de Gli strumenti umani. In mezzo il Diario d’Algeria, che esalta le qualità divinatorie del libro precedente, vero e proprio antefatto del più importante libro italiano di poesia sulla Seconda guerra mondiale. Sereni non sconfessa la propria poetica, compie un salto tematico e contenutistico, più che stilistico, limitandosi a depurare la propria commozione delle suggestioni decadenti ancora attive in Frontiera. L’elemento autobiografico non si dissolve, ma assurge ad emblema generazionale; Sereni compie la propria rivoluzione senza clamori, lontano dalla letteratura impegnata degli anni 40-50, tesa al passaggio, incompiuto, dall’Ermetismo al Realismo, con frequenti scivolamenti nella retorica (Quasimodo).

La funzione della poesia, per il luinese, è invece quella di esprimere uno scacco personale e generazionale, di raccontare un’esperienza di esclusione dalla storia. Il poeta è mancato alla guerra: da qui un senso di colpa e di viltà, di impotenza, che dalla prigionia prosegue ne Gli strumenti umani. E, fa notare Pagnanelli, dal senso di isolamento della circolarità del lago di Frontiera si passa al senso di isolamento della circolarità del filo spinato; quel “male del reticolato”, Limbo o Purgatorio (come in Luzi, Montale, le nebbie degli scenari di Caproni) che rappresenta non solo la resistenza e la rivolta, ma spesso l’accidia e la noia, rotte dagli scatti di speranza e dai dialoghi con sè stesso e le apparizioni, i fantasmi della prigionia. Non mancano, come ne Gli strumenti umani, i piccoli grandi eventi (una partita a calcio tra prigionieri) che squarciano la monotonia e la disperazione, espresse in forme metriche sempre più frammentarie, vicine all’appunto sul foglio volante, con un linguaggio sempre meno letterario, le cui contaminazioni tra lingua colta e popolare anticipano la raccolta successiva. Così come l’ira e la ribellione che attraversano Non sa più nulla, è alto sulle ali, ricordano, ad esempio, La scoperta dell’odio (Gli strumenti umani). Aspetti che analizzerò nel prossimo numero, nel secondo capitolo di questo mio contributo, che si occuperà della seconda parte della tesi di Pagnanelli e dei suoi saggi critici su Sereni apparsi in rivista negli anni Ottanta.

(continua)

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