“In una sorta di poesia in prosa”. Le filigrane di Guido Garufi

di Filippo Davoli

All’uscita del suo più recente libro di versi, Fratelli, alcune giovani voci della critica letteraria italiana storsero il naso: la scrittura di Garufi – dicevano – è troppo novecentesca, quasi che l’appartenenza anche anagrafica al secolo scorso suonasse automaticamente come passatista, quando non addirittura sorpassata.
Non è così, a nostro modesto modo di guardare. Il “bell’italiano” dovrebbe (dovrà, prima o poi) tornare in auge, come si conviene a ciò che merita nominazione ed attenzione.

Sappiamo tutti, mentre evitiamo di dircelo a chiare note, quanto le nostre Lettere subiscano ai nostri giorni la stretta dei minimalismi da un lato e – dall’altro – lo sfacelo delle meno governabili sciatterie. Che non tradiscono soltanto la scarsa frequentazione della biblioteca, quanto – e forse drammaticamente di più – la trasandatezza di un modus orecchiabile più o meno accattivante, più o meno seduttivo, sicuramente di immediata presa su un pubblico che non è più quello della poesia in senso stretto e felicemente elitario, bensì quello più ampio e troppo spesso occasionale dei social e/o delle performance.

Tommaso Landolfi sarebbe inorridito. E nonostante il suo giocare con le parole, la sua ricerca estetizzante e quasi parossistica (io peraltro lo adoro), il nostro presente l’avrebbe senz’altro – e a ragione – risospinto ancora più in là (Noventa) del contemporaneo poetically correct.

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Due giorni fa ho ricevuto via mail l’invito ad aderire ad un quotidiano che si chiama Slow news: articoli lunghi, di approfondimento e riflessione, senza nessuna concessione al sensazionalismo o alle notizie dell’ultimo minuto. Articoli scritti con grande cura della lingua usata e del bello stile, come si diceva una volta.

Perdonatemi la digressione, che tuttavia è solo apparentemente sganciata dal libro di Guido di cui dobbiamo parlare oggi, Filigrane. Canzoniere apocrifo (affinità elettive, 2020). Anche il suo è uno slow book, un libro di illuminazioni mosse che tuttavia ha un suo ritmo interno lento, progrediente e non circolare, nonostante l’apparente ritorno dei temi da un capitolo all’altro; un tentativo di scavare la fossa alla propria esperienza esistenziale, alle morte stagioni, per aprire il cerchio sulla presente e viva. Ed anche sul suon di lei, perché lo stile e il lessico non possono ritenersi accessori incidentali; bensì parte stessa della narrazione.

Guido Garufi (foto di F. Davoli)

In questa inquadratura pasoliniana (ossia dai tempi lunghi, come quando ad esempio in Medea il regista poeta indugiava oltre i tempi cinematografici sugli occhi della Callas); in questa progressione lenta ma inesorabile, Garufi compie un piccolo prodigio: riesco a scrivere un romanzo che romanzo non è.

Si tratta piuttosto e davvero di un canzoniere apocrifo, quasi di un libro in versi che ha però individuato una sua cifra distesa, narrativa in quanto ricognitiva (una sorta di poesia in prosa, la definisce l’autore nel capitolo dedicato alla palude, cioè a quella stagnazione imposta da certe anfibie fissità solo apparentemente dialogiche, che hanno un’origine arcaica e risultano per certi versi fondative della nostra cultura maceratese). Guido – nella sua perlustrazione ampia e soggettiva (ma non esclusiva, anzi: includente) – rilegge il suo tempo oltre le diacronie degli eventi, raggrumando e conteporaneamente sviscerando. Un approccio che si può dire scientifico, almeno quanto sentimentale ne è la partecipazione.

E un approccio linguisticamente esatto: la perizia calligrafica di Guido, come si diceva prima, non è mai un atto voluto: è invece un modo d’essere, il suo modo d’essere e di scrivere; che indica anzitutto la provenienza, i maestri, l’educazione, la formazione insomma. E indica anche l’attenzione per la parola, chiamata appunto a ri-conoscere, a formulare l’anamnesi, a orientare l’atto creativo nella giusta direzione: che è quella, intellettualmente onestissima, della rielaborazione critica e poetica della sua (e della nostra) vita intera:

<Sì, lo ammetto, molte volte ho sperato che il giorno si facesse notte e che il sole spianasse totalmente la campagna, e ancora che la veglia e le albe furtive, gradualmente, mostrassero un volto più sereno, e il vento mano a mano declinasse in melodia la propria nota oscura. Avverto allora in modo più lucente la mia infanzia, tutta elementare, tutta natura, fatta di canto e di silenzio, di un silenzio essenziale come l’erba, un’erba nuda e docile nella sua estrema bellezza e notturna, nella sua mente e nel suo silenzio così umano. E il mare, allora, dopo una giornata faticosa, sudata, questo mio mare Adriatico, verde, intenso, avvicinandosi agli argini, lambendo gli ombrelloni dopo la tempesta come si legge nella montaliana “Arsenio”, sembra intrecciarsi a citazioni dannunziane, dove l’elegia marina è “verde come i pascoli dei monti”, nella luce tarda della sera, nei frammenti leggeri di un polline solitario di purezza, tutti segni della nostra stagione, avvistando sul celeste dell’acqua il movimento dei cutter all’orizzonte, in quella bellissima stagione che è l’infanzia, nella mia vecchia Fontespina, piccolissima frazione ai confini di Porto Civitanova, ai miei casotti, all’albero del fico accanto alla Lampara, con quegli amici, con quelle voci, con quelle immagini… ed è questo vento del ricordo che mi riporta a quel corpo di velluto che è la sabbia che mostra ancora le stelle marine e gli ippocampi. Un piccolo mondo che da arido e deserto fiorisce in queste immagini, si muove e dentro di noi vive mentre qui scriviamo alla presenza di chi non è più accanto a noi, quasi come un alito, una carezza.>  (pag.  61)

In Guido, Poesia è personaggio della trama al pari degli altri, figura dialogata che offre segnali al viaggio iniziatico intrapreso; in essa appaiono semmai, in filigrana, il suo amore per la lirica inglese, sempre elegante e sorvegliata. In essa si lascia riconoscere la medesima montaliana capacità di distanziarsi dalle cose non per tenersene a bada, ma giusto quel che sufficit a poterne dire senza sovraccaricarle di qualsivoglia enfasi o retorica. In essa aleggiano anche – ça va sans dire – alcuni suoi numi tutelari come Mario Luzi e Vittorio Sereni, non meno dell’amico e sodale di sempre Remo Pagnanelli.

Guido sa di usare un medium – la scrittura larga della prosa, ma mediante il rigore esaustivo della poesia, che in questo frangente specifico ha pure una sua valenza etica non indifferente – e tuttavia non se ne serve, bensì attraverso di esso serve il magmatico mare dei volti e dei ricordi della vita per tentarne una ricognizione.  Come Gadda, ci conduce scientemente per mano nella sua narrazione per niente romanzata:

«io chiedo al romanzo che ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto». (Carlo Emilio Gadda, I viaggi, la morte – 1958)

Le ragioni o le irragioni dei fatti: sono queste, le filigrane. Un viaggio di presenze e di assenze, di volti che c’erano e che tuttavia ritornano in una compresenza di tempi diversi; uno spaesamento che è però finalizzato ad una risalita possibile verso la luce. Una grande e commovente reverie, condotta col garbo e l’attenzione che si riservano alle cose vere.  

la copertina del libro

 

 

 

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