per Francesco Scarabicchi

Nella notte tra il 21 e il 22 aprile ci ha lasciato Francesco Scarabicchi. Lo ricordiamo con due testimonianze: la prima è tratta da una serata del 2015 in cui venne intervistato da Nicola Bultrini nell’ambito della Rassegna “Ritratti di poesia”; la seconda è uno dei corsivi che con entusiasmo aveva accettato di scrivere per la rubrica “Dalla finestra” nella rivista “Quid Culturae” (diretta da Filippo Davoli), laboratorio online di quella che sarebbe poi diventata “Nuova Ciminiera” e che era ospitata come allegato culturale nel quotidiano online “Cronache Maceratesi”.
La notizia della sua scomparsa ci provoca un dispiacere acuto, unito ad una triste malinconia. Francesco è stato uno dei migliori poeti italiani, figlio a pieno titolo della terra marchigiana (anche in senso poetico); autore per Donzelli, L’Obliquo, Einaudi, liberilibri; raffinato critico d’arte, eccellente traduttore di Machado ed altri.
Ma con lui se ne va, soprattutto, un amico mite e caro, una persona splendida, di quelle che non si dimenticano.  

 

  • Nicola Bultrini incontra Francesco Scarabicchi (per gentile concessione di “Ritratti di poesia”, Ed. 2015):

 

  • dalle pagine della rivista “Quid Culturae” (luglio, 2014)
    Francesco Scarabicchi – Numana
    E’ un sabato sera dolce e umido quello che mi porta a Numana, dopo molto tempo. Dal 1994 non ci sono più tornato, se non per fuggevoli transiti, scendendo verso la spiaggia. Dal vialetto di oleandri – alle spalle di Via Carducci – imbocco la discesa di Via Matteotti per trovarmi sotto le luci gialle di Piazza del Santuario che custodisce, nella chiesa nuova, quel Gesù crocefisso del XII secolo, in legno di cedro, così strano e niente affatto avvolto dalla tenebra della morte e dello strazio, ma con la chiarità orientale dell’enigma cristiano, insolito nella sterminata iconografia romanica. Si sente il rumore dei passi. Poca gente che cammina o si accosta alla fontana seicentesca sul fianco del Santuario, anziani verso i giardini lungo Via Morelli, con gli argini di magnolie sulle cui foglie batte il riverbero dei lampioni. E’ una Numana insolita questa che sta nel sonno dell’ora quieta e sospesa fra il tempo presente e le lontane ombre della storia che hanno lasciato una presenza impercettibile, un bisbiglio perpetuo, un mormorio di idiomi e lingue sepolte che accompagna chi la viaggia lungo Corso Roma, fra i palazzotti e le case basse in un ordine insieme umile e dignitoso, in una misura che non si perde neanche d’estate, quando il sole e la ressa dei villeggianti mutano il volto del paese in una sorta di “festa mobile” che lo attraversa nelle strade e negli anditi segreti. La vacanza a piedi sotto una luna quasi piena è un privilegio raro che consente di ascoltare una delle voci ignote del luogo, la pronuncia sommessa di questo perduto villaggio di marinai, porto piceno e rotta degli ateniesi per le merci greche, ai bagliori immaginati dei secoli che ha attraversato. E’ un solitario sentiero che riposa nei lumi bassi verso la balaustra che apre il Corso al mare invisibile e fragoroso nascosto dal buio della sera, laggiù in quella gola scura in cui s’indovinano le cime degli alberi sul fianco del monte mentre abbaiano i cani dei giardini. Dov’è l’arco che chiamano “Torre”, dal belvedere che affaccia sull’Adriatico e scopre il tremolio rossastro della costa lasciando che il vento prosegua il suo viaggio eterno e misterioso (chi sa dov’è che va quando non c’è?), dà un senso misto di pena e malinconia guardare i resti delle pietre romane e medioevali isolate nell’aria che le circonda ad ogni stagione, quella sorta di dente del tempo confitto nel suo nulla, superstite tra un ristorante chiuso e il porticciolo turistico con le passerelle che galleggiano sull’acqua verde e fredda illuminata dagli alti fari della banchina. Risalgo piano per guardare la scalinata della Costarella nella sua mestizia che tocca anche i grandi vasi di fiori addormentati, finestre spente e accese, imposte serrate e aperte, silenzio appena rotto dalle voci dei ragazzi che contrattano il dopocena prima di infilare i caschi e sparire. A pochi metri dal palazzotto comunale (l’antica settecentesca residenza estiva dei vescovi anconetani toccata da luci che ne risaltano la stranezza, un misto di incompiuta, signorile e “povera” architettura che racchiude in sé il senso di una nuova epoca per il paese, dopo le rovine della natura e degli uomini) c’è la Via Pascoli che inclina e sembra conduca chi sa dove, per vene di brevi strade che lasciano la sensazione di un riposo possibile in questi alberghi, nell’ozio che abita i giorni, le case, i cancelli, le insegne e l’intatta bellezza muta del borgo.
    (fine luglio 2014)

 

 

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