Le vicende di una bellissima storia. Per Filippo Davoli (2a parte)

L’avventura di Davoli riprende nel 2008 con Gli incendi, esile raccolta che costituirà la sezione principale di Come all’origine dell’aria (2010). Il lettore prenda con le dovute cautele questa divisione in due parti: avrà già notato, infatti, i frequenti rimandi tra una raccolta e l’altra, nonché, dall’abbondanza dei testi proposti, la personale predilezione di chi scrive per il libro centrale, Una bellissima storia. Il ritorno di determinati aspetti non fanno che confermare quanto la scrittura di Davoli, pur nell’evoluzione e maturazione dello stile, si mantenga fedele a sé stessa. Si è detto nella prima parte dei motivi che hanno portato a questo silenzio inusuale per un autore che ha sempre scelto la scrittura, per necessità ineludibile, come viatico per esprimere il suo corpo a corpo con la vita, nonostante questa “ecceda” sempre le possibilità della poesia. Riporto inoltre un aneddoto, da un’intervista, in cui l’autore rivela il suo stato d’animo rispetto al mondo letterario, dopo una partecipazione al Parco Poesia a Riccione, nel 2003:”la maggior parte del tempo l’avevo passato lungo viale Ceccarini a far amicizia con una barbona in lacrime, mentre gli altri – dentro l’aureo giardino della reggia di Versailles – si dedicavano alle filologie più astruse…”.

L’attività di educatore di minori extracomunitari genera l’endecasillabo levigato, quasi petrarchesco, mai così squillante di Come all’origine dell’aria. Con la “festa di parole”, per dirla con Sandro Penna, di questo periodo, Davoli canta la giovinezza rinata della sua poesia: “l’incontro si fa carne” grazie alla parola vergine, nuda dei ragazzi a cui insegna l’italiano. Gli incendi si aprono con la poesia che segue, di cui riporto però la versione ultima, uscita a febbraio 2021 in Dentro il meraviglioso istante, nella sezione delle Riletture:

Nudo. E la nudità che ti distingue
dagli altri crocifissi della Terra
è il sublime ed altissimo vedere
di chi scolpendosi nel legno rinunciava
a ogni cosa di sé. Non hai nemmeno
ferite, solo silenzio
di chi guardando ascolta.
Sei nudo interamente, come la vita
che il mistero compatta negli iniqui dolori,
nei percorsi labili della notte.
Soltanto Tu e totalmente altro.

In questa versione definitiva, espunta in realtà solo di un verso centrale, c’è un’altra lievissima correzione, rispetto all’originale, che terminava con “…Soltanto nudo/e totalmente altro”. Mi piace pensare che Davoli abbia raggiunto la “nudità” semplicemente dicendo Tu a un totalmente altro “spoglio”, in cui riconoscere Cristo.    Ed è la poesia e il poeta stesso, in questo senso, ad essere nudo, disarmato di fronte alla grazia. Questa nudità non è diversa dall’umanità del compianto Loi, dal “vèss òm e vèss puèta”, “essere uomo ed essere poeta”, che altro non significa per il gigante della nostra poesia, “essere uomo è essere poeta”: Loi, seguendo i suoi famosi versi, identifica il poeta con l’uomo; in Puèta è un uomo che sa mangiare e bere bene, è un uomo innamorato; spesso è un semplice lavoratore che conserva nel vivere uno spirito geniale (Loi era convinto che qualsiasi uomo appassionato del proprio lavoro fosse, in fondo, un poeta), non ha “la poesia legata dentro”. Così per Davoli la nudità diviene della poesia e della vita oltre la letterarietà del testo: il marchigiano rimane sempre estremamente attento, quasi guardingo di fronte al rischio di un’eccessiva letterarietà nella scrittura, il pericolo di generare qualche “cartaceo imbroglio di buona fattura” (da Una bellissima storia). Ricordo come parlasse della grandezza e “nudità” di Leopardi che nei versi dell’Infinito ha scritto: “E come il vento/odo stormir tra queste piante…”. L’estrema semplicità della parola comune “piante”, non il più accattivante, onomatopeico e scontato “fronde”, come nella lettura erronea di un  relatore in un convegno di poesia a cui ho assistito con Filippo.

Filippo Davoli a Recanati, sul Colle dell’Infinito (foto di D. Bellucci)

La rotondità del verso di Come all’origine dell’aria è apprezzabile in Quando il vento si posa oltre la notte, proprio partendo da uno degli incipit a mio parere più felici del Nostro:

Quando il vento si posa oltre la notte
e un canto si solleva lungo i fiumi
tra le erbe non accolte
che dal ciglio di pietra, nell’alveo
che conduce, diresti
che tutto ha un senso,
anche il dolore, anche la morte
che accarezza quel ciglio, che lacrima
il bagliore dell’alba,
fraternità delle zolle, medesimo
sguardo alla luce, al vero.
La carta allora
torna ad aprirsi, un’orma
traccia il camminamento.
Ci interpella uno stesso fluire
oltre sterpaglie basse.

Siamo al culmine della resa poematica di questa scrittura: l’ulteriore maturazione dello stile avverrà in direzione di un’essenzialità di fondo. Dalla raccolta I destini partecipati il poeta sembra asciugare con naturalezza il proprio dettato e costringere il verso su caratteri apparentemente più prosastici. In realtà Davoli dimostra di aver fatto propria la lezione montaliana: attingere al “gran semenzaio” della prosa; o, per dirla con Bertolucci, la sua poesia “finge” di farsi prosa senza abbassarsi ad essa. Il marchigiano non ha mai fatto mistero di prediligere, più che le derive sperimentali vocianti delle avanguardie, le scelte ben più consistenti di Sereni o del secondo Luzi, la colloquialità de Gli strumenti umani  o Nel

la copertina de “I destini partecipati” (2013)

magma o, nella generazione a lui più prossima, di Pagnanelli o Benzoni. Non si tratta dunque di uno sperimentalismo studiato a tavolino: l’urgenza esistenziale dietro l’incontro di questa parola con il mondo è sempre la stessa, che si tratti dell’abbraccio con una barbona, di una sigaretta fumata con un migrante a cui insegna l’italiano o di incrociare un topolino che si aggira curioso entro le mura del centro di Macerata, nella sua ultima raccolta, del 2016, La luce, a volte. La qualità più propria di questa poesia sta proprio nelle straordinarie aperture all’interno di un approccio rasoterra, quasi sabiano, quando il Nostro adotta la prospettiva di un piccolo roditore. Seguendo il precetto di Borges secondo cui ogni autore scrive un unico libro, l’approccio “rasoterra” è lo stesso nel Nostro, che ci si addentri nel retrobottega del poeta stesso (Poemetti del contatto), si accolgano le fusa di “un gatto forastico” (Il Grigione, in Un vizio di scrittura) o le moine degli amati cani (Una bellissima storia) o ancora tra la polvere (padano piceno) e addirittura la pelle morta di un materasso (I destini partecipati).

La disposizione vitalistica che, dicevamo, ascrive a pieno diritto le liriche di Davoli alla linea creaturale della poesia italiana contemporanea, non cede mai alla tentazione di ripiegare su una retorica consolatoria: e forse il mood che intride più a fondo la scrittura del marchigiano a partire da I destini partecipati è proprio quello di chi vive vedendosi “invecchiare giorno a giorno,/brano a brano”, di chi cioè si trova a fare i conti con la fine, personale ma anche come percezione della fine del mondo, di un Apocalisse. Davoli non si rifugia neppure nel rimpianto o in una poesia memoriale: l’orizzonte del suo universo spirituale è sempre il presente, certo non il presente cronachistico di tanta poesia minimale o il sentimentalismo epidermico di soluzioni contemporanee, anche pseudo-poetiche; la ricerca è sempre quella, interiore ma con lo sguardo sempre disponibile all’incontro, allo schiudersi di un varco, un farsi presente alla luce e all’eternità. Si tratta di un nodo cruciale per gli sviluppi di questa parabola poetica: la resa di Davoli è quella di chi saggiamente non ha più paura di invecchiare (“beati, nella calma età che procede”), sa che in fondo è un bene perdersi nel Grande Fiume. L’atteggiamento è perciò quello di un cristiano che coltiva la propria fede, le relazioni e “la vita che non ha nulla di eccezionale…come un piccolo/orto discreto”. Ma in questa sorta di panteismo, la fede dogmatica dell’autore vede chiarirsi la verita’ sempre passando per la vita. La concezione di Davoli non è lontana da un sapere orientale che certamente non ha la stessa spasmodica paura della morte e bisogno continuo di esorcizzarla del mondo occidentale secolarizzato. Il Nostro ricordava anche che lo stesso sapere orientale privilegiava l’udito, l’ascolto; è stato il pensiero occidentale ad assegnare il primato alla vista. Lo si ricordi per il perenne carattere musicale di una scrittura che, al di là di qualche rapido scorcio di provincia, non si è mai diffusa in descrizioni particolareggiate o parentesi affabulatorie.

Ne I destini partecipati il poeta marchigiano non rimpiange affatto, dicevamo, di “non avere più vent’anni”:

Tutto passa, in questa vita. Si avvicendano
anche in noi sentimenti, abitudini
che credevamo insormontabili, e invece…
tutto trascorre inesorabilmente
ed è bene così. Siamo frecce
puntate verso l’azzurrità. Ce ne andiamo
di viaggio in viaggio, di vecchiaia in vecchiaia
verso una giovinezza che non termina.
Oh certo, nell’andare di volta in volta rimaniamo
un po’ di noi avvinghiati agli affetti
e questo è un doloroso fastidio
ma pure qualcosa di noi deve restare
come traccia del vissuto su questa terra.
Tu non dolertene oltre misura.

Il motivo, che ricorre anche ne La luce, a volte, si ripropone esplicitamente nella poesia che chiude I destini partecipati:

Io non ho più vent’anni, grazie a Dio.
Sono già oltre la metà dei miei,
se a cento conto di non arrivare.
E davvero non voglio. Come un fulmine
di grazia, è quest’attesa. Come un turbine
che affatica le pratiche dei giorni
aprendo ad una vista eccezionale.
Lavoro per il mondo che mi attende,
vivo il presente per l’eternità.
la copertina de “La luce, a volte” (2016)

Chiarendo il senso profondo del titolo La luce, a volte, possiamo comprendere quanto l’apertura di un varco verso la luce è un bisogno dell’uomo Davoli di aderire all’eternità: non è la luce ad essere intermittente, discontinua, a mancare, è l’uomo, spesso, a mancare l’appuntamento dinanzi ad essa. Lo aveva già espresso, il Nostro, in un passaggio di Una bellissima storia:”Eternamente vivrò, tutto lo dice./E’ viverla oggi tutta e veramente/questa esistenza il guaio…” . O ancora in due splendide Riletture dalla sua ultima raccolta:”Capissi l’eterno/che c’è dentro il presente, dove si compie/tutta la storia del mondo…”; “La vita che non s’afferra/è quella vera che attraversa i giorni,/la vita che s’incarna dentro la vita/come un sigillo di vene”.

Da un punto di vista linguistico la ricerca dello spiraglio, dell’attimo, dell’ “anello che non tiene” montaliano in Davoli la suggeriscono da sempre i frequenti participi e gerundi tipici di Sereni e Benzoni (“Giunto alla stazioncina d’Albania…mangiando/giù dalla carta nobilmente i piatti…/e poi seduto sbivaccato sul divano”, @, in Una bellissima storia), nonchè le iterazioni e i periodi ipotetici (“Se ti incontrassi davvero/al Bar del tempo/forse pioverei nei Tuoi occhi…afflitto come sono dalla smania/di frenare gli istanti/di calarmi dentro la vita (Tu che faresti?)…”, Al Bar del tempo, ancora in Una bellissima storia). Espedienti retorici che hanno proprio la funzione di aderire alla “vita dei nervi” (Bahr) dell’autore, ma soprattutto, come negli ultimi versi citati, di sospendere il flusso del tempo per aprire un varco.

La direzione dello stile maturo, “tardo” (Adorno), di Davoli nelle sue ultime raccolte, è all’insegna di una rastremazione del dettato, un processo di essenzializzazione del linguaggio che è possibile apprezzare mettendo a confronto due testi che parlano di vocazione poetica. Il primo è un esempio dell’endecasillabo sonante di Come all’origine dell’aria: presente nel poemetto finale di quella raccolta, intitolato Figure senza erbario, è stato posto dall’autore al termine del vistoso rimaneggiamento del poemetto stesso, nel suo ultimo libro Dentro il meraviglioso istante. In questo caso l’autore ci parla della genesi del proprio processo creativo a partire dagli elementi, come in un parallelo con la Genesi biblica:

Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.

L’altro testo ci parla invece di un’essenzialità dirompente prendendo spunto da un concerto storico di Chet Baker a Macerata:

Non serve esagerare con le parole.
Anche le note ne bastano poche, ma vere
l’anima, l’anima…
era Chet che parlava,
lo diceva al giovane sax che riempiva
il soffitto di virtuosismi. E poi lui
lo sterminò con una nota sola.
Un lamento basso, interiore
che ci innalzò al tormento.

Al di là di qualunque tipo di intento apologetico, penso che pochi altri poeti oggi in Italia sappiano parlare in termini così limpidi della propria vocazione alla scrittura.

Così avviene anche nella raccolta che è appena uscita; raccolta massiccia, dicevamo, sempre ricordando però la disposizione del poeta ogni volta che “lascia” alle stampe un’opera, esattamente come si lascia andare libero un proprio figlio nel mondo, senza legarlo ai desideri del nostro ego. Nel caso letterario, quindi, senza pensare ai ritorni di gloria della propria creazione:

Sono uno che scrive. Ci lavoro
spesso di notte o quando viene buono.
E’ un dolore che chiama e che conquista
noi gente strana che ci tocca scrivere.
E servirà? Lo ignoro. So soltanto
che devo. Sono solo un operaio
che la voce ha legato al mondo e agli uomini.
La mia catena di montaggio è un cuore
che ascolta il fondo e lo riporta in alto.

In tempi nei quali si continua a parlare di scomparsa, di dissolvimento delle poetiche, il timbro della voce e l’effluvio musicale di Davoli si distinguono chiaramente, lo stile rimane fedele a sé stesso, per i riferimenti certi alla tradizione. Si pensi, nel verso finale di questa lirica che apre il libro, addirittura all’Ungaretti del Porto sepolto; ma la tensione, l’anelito spirituale che fa sentire il poeta “un tutto che si apre dal suo nulla” scaturisce dall’armonia della vocazione, appunto, più che romantica ispirazione. Nella reverie (non va dimenticata la venerazione dell’autore per il Bachelard di Poetica della reverie) l’autore vede compiersi il miracolo, la propria interiorità in relazione con il cosmo; come se, in termini danteschi, “amor che ditta dentro” e “amor che move il sole e l’altre stelle” vivessero dello stesso movimento. Da questa sorta di panteismo, tutt’altro che idealistico, ma, poiché non elude l’attraversamento del dolore, esistenziale, “carnale”, si spiegano le ricorrenti coppie oppositive di aggettivi (“indomiti e semplici”), gli ossimori, come anche, nelle raccolte precedenti, nel frequente contrasto caldo-freddo (“che bel freddo”).  Innumerevoli le voci dei maestri del Grande Novecento convocate in quest’ultima raccolta: il lettore mi permetta di tornare ancora una volta a Loi, seppure il lettore stesso possa individuare altre voci più prossime, sul piano stilistico. Ma ho l’impressione che la complicità con il maestro e amico sia un elemento decisivo della scrittura e di quello “che corre nelle vene” del Nostro:

Affinità non spiega. Si direbbe
scovati entrambi da uno stesso spirito
(o da una similare libertà).
Dentro la tua pupilla o nella voce,
sebbene tutta un’altra l’esistenza,
io mi ritrovo. E sento farsi intima
nella mia vita la tua integrità

Curioso raffrontare la densità e compostezza di questo testo, con la complicità nella scrittura di cui parlava Davoli in Loi di Un vizio di scrittura:

Ma pure le parole, non credi?
ce le abbracciamo a volte come cuscini
ci si fa pure l’amore. Insaputando,
annusando ogni odore…

Sembra perfino di cogliere l’influenza futurista dell’amico pittore, il maceratese Wladimiro Tulli, nelle note ariose e musicali del poemetto dedicato a Loi.

C’è un bellissimo verso di Vinicius de Moraes che Filippo ama ripetere spesso, “la vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Non c’è differenza, per Davoli, tra l’incontro con una persona e la grazia della propria vocazione. Entrambi il poeta li riconosce “al volo” e, per usare quegli straordinari versi di Mario Luzi che anche questa volta danno il titolo a una raccolta del marchigiano, “dentro la vita/dentro il meraviglioso istante”. Lo stesso gigante fiorentino aveva definito, nei suoi saggi critici, la voce di ogni vero poeta come “una voce perpetua che ricomincia miracolosamente a parlare in quel punto”; riguardo invece la posizione della poesia nella storia e nella società alla fine del Novecento, aveva parlato di una poesia che “può essere scritta dentro il mondo, non contro di esso”.

Allo stesso modo la poesia di Davoli, nel suo punto di estrema maturazione, mi ricorda uno scritto straordinariamente

la copertina di “Dentro il meraviglioso istante” (2021)

acuminato di Sereni sulla poesia di Gatto, un rilievo critico del 1938. Sereni era partito da un concetto molto diffuso nell’ambiente ruotante attorno all’Ermetismo, un estratto dall’introduzione di Solmi a Quasimodo:”Il paradosso della lirica moderna sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni…La favola risorge sul mondo distrutto come un miraggio sul deserto”. Sereni aveva corretto la posizione di Gatto rispetto all’affermazione iniziale, [“modificheremmo (<nel mondo> e nemmeno distrutto, ma irto)”], giustificandola con una serie di elementi, il più preponderante dei quali una disposizione melica, anche nell’uso sabiano della rima, che esprimeva tutta la “simpatia” del verso con il mondo circostante. Spero, con questa suggestione critica, di non incorrere in una forzatura. Mi sembra tuttavia che oltre agli apparentamenti della poesia di Davoli con Gatto e la prima stagione ermetica, come già evidenziato da Garufi e da Tesio, nella magnifica introduzione (i numerosi preziosismi lessicali, come alcuni verbi intransitivi usati in maniera transitiva o non riflessiva, come “brivida”, “meraviglio”); una disposizione, quella con cui Davoli si riallaccia addirittura al Primo Novecento, che Garufi riportava alla prima maniera dell’autore, ai suoi esordi; mi sembra che la “modestia piana” (per usare ancora le parole di Franco Loi per Alla luce della luce) delle sue liriche si confermi nella dizione asciugata e ridotta all’essenziale delle Riletture, la prima sezione di rivisitazioni di versi da precedenti raccolte. Lo stesso si può dire per l’orizzontalità, che non si vieta incursioni perfino dialettali, accanto all’eleganza e ai preziosismi di cui sopra, di una poesia la cui vigile malinconia, diffusa, mai effusa, fa notare giustamente Tesio, consente di non scadere in quel languore contemporaneo tanto deprecato dallo stesso autore, in una conversazione:”Quelle malinconie soffuse, vagamente sognanti, che non prendono di peso né la vita, né la morte. Le parole hanno un peso, una loro profonda responsabilità”. Credo che di questo prendere di peso l’esistente viva perfino la fede cristiana che dà impulso alla voce di Davoli; una fede che riesce tuttavia a non incendiare le leopardiane illusioni e a mantenere quel mondo non “distrutto, ma irto”:

Trema il cuore nel vedere che nulla
ci appartiene nel brulichio del mondo
che obbedisce istintivo al suo trascorrere.
Solo lo sguardo innamorato sazia il fondo
buio della domanda.

Ancora una volta a sancire la maturità della poesia di Davoli è l’ineludibile confronto con il dolore e la morte, che nel poemetto sul terremoto Zirzilah diviene Apocalisse personale, storico e cosmico, crollo anche del proprio universo percettivo, smottamento nel moto ondoso delle sue dolci colline. Non a caso i versi del marchigiano potrebbero far pensare, in alcuni passaggi, alla Bufera montaliana:

C’era gromma nel tubo. C’era terra
nella gronda che squassò la parete
inondandola. Fiorirono erbe.
S’era però in un padiglione antico.
Così vennero recise col fuoco,
perché non gli tornasse voglia
di riprovarci.
E adesso?
Guarda come il muro si sfarina
lo stesso, dissestato dal fondo. […]
A colpi, a brani si scarnifica
la mia terra dolcissima.
Divorata, smangiata,
smagati noi.
Che più ancora, vedendola
indifesa sbrecciarsi.

Il composto lirismo a cui Davoli approda non gli vieta di intrufolarsi tra la gente del suo “rione”; anche in questo caso, come ha notato Tesio, l’autore non nasconde il colloquio con un’altra costante frequentazione delle sue letture, Umberto Saba (vedi anche Domenica sportiva, nella prima sezione):

Le strade. Dove pullula la vita migliore,
la più anonima e indaffarata.
Le strade dove gli uomini si incrociano
e sognano la sera che cala
e li conduce agli svaghi
brevi come durata, intensi nel desiderio.
Poveri uomini, amate spoglie sorelle
che tutti siamo parte del tutto
e gli uni degli altri
ma come è naturale non saperlo.

Un lirismo borghigiano e terragno, che certamente risente della lettura vorace dell’amato Pratolini e sa anche cogliere il carattere profondo del genus a cui è radicato:

Di là dal mare, nella terra antica
segregata tra i monti, sono forti
gli uomini che ci vivono, non temono
nemmeno le pallottole. Nei campi
l’arsura fa da sfondo a quella scorza
che li fa irredimibili.
Terra capriccio che li tiene stretti
ai suoi costoni, ripidi e selvaggi.
Di qua dal mare è diverso ma non dissimile.
Radico nell’aratro come la ruggine,
brillo al canto del sole tra i colli verdi
dove la vita a ogni istante si ricompone.
Guardo il mio oriente, io deposto al margine.

Altrove la lingua dà prova di mantenere il suo equilibrio classico e di aprirsi naturalmente all’idillio leopardiano intriso di un’elegia, una malinconia depurata dal sentimentalismo sfiorato in alcuni esiti precedenti:

Non scampa al rigore
il primo lembo di settembre. Invano
tornano le giornate chiare
ma un brivido acuminato le percorre
e ne allontana il cuore dell’estate.
Le spiagge aperte ormai
alla assolata solitudine, l’acqua
di nuovo impraticabile e gelida.
Se le raggiungi con lo sguardo trema
dentro di te la vita, t’infuturi
nella linea sperduta dell’orizzonte.
E già sei oltre, nei nidi.

Personalmente ritengo che l’obbedienza a una vocazione sia uno degli antidoti migliori al culto del proprio io nella società di oggi e all’eccessivo biografismo che affligge molta poesia contemporanea. Nel suo recente, splendido libro di prose Filigrane, Guido Garufi ha scritto che solo la parola dei poeti ha potuto dare un senso alla propria vita, trasformandola “da sopravvivenza a esistenza”. Non so quanto possa essere valida quest’affermazione anche per Davoli. Credo comunque che al “claustrofilico” reveur marchigiano vada riconosciuto il coraggio di credere in un amore, un’umanità, una relazione che in quanto autentici non sono mai privi di rischi. Nei tempi cupi in cui viviamo il fiorire ogni volta limpido e necessario della sua voce mi sembra una delle testimonianze più feconde di una parola che attraversa il dolore della Storia senza rivoltarsi contro il mondo e senza maledirlo, ma restituendosi nel martyrion, nel sacrificio del proprio io, riesce a farsi docile strumento della Grazia:

Voi che passate sulla mia piantagione
di erbe figlie della mia muscolatura,
calpestatemi ricordando che tutto passa,
che ogni forza tracolla, che spanta
sparge il seme la fortezza diroccata.
Non vi colga di sorpresa quando arriva
la rovina. Siate indomiti e semplici.
Giungete al nostro riposo con dentro la pace
e vi sarà delicato l’arrivederci.
Filippo Davoli
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