A proposito di Nosferatu

Andrea Accorsi

Quasi tutti e quasi sempre tendono concordemente a collegare il film Nosferatu Phantom Der Nacht   (prodotto e diretto da Werner Herzog nel 1979)  con il capostipite per antonomasia del genere: il celeberrimo e fortunato capolavoro espressionista Nosferatu di Murnau del 1922.  Alla leggera e assai superficialmente il collegamento regge: l’intento di Herzog era comunque quello di risollevare le sorti del “nuovo” cinema tedesco portandolo ai fasti avanguardistici e alle forti produzioni originali di quell’epoca.  Così come regge il parallelismo, sul quale facilmente si potrà fantasticare,  di situazione politica contingente e storica che vede la nascita di entrambi i film; da una parte esorcizzare i venti dittatoriali e  oscurantisti paventati dalla sempre più profonda crisi della Repubblica di Weimar e dall’altra, nel 1979,  manifestare il turbamento “tutto tedesco” di una nazione divisa da un muro punitivo, da una spartizione postbellica che iniziava a dimostrare tutto il suo anacronismo.

Ancora e di più, per gli amanti della significazione antitetica, per i cercatori  e i minatori  di substrati storico-religiosi sotterraneamente riscontrabili in alcune, come questa, pellicole-chiave, Nosferatu principe della Notte di Herzog  potrà  essere visto e discusso come una sorta di punizione o anatema  che l’intellettuale moderno (riferendoci a Werner Herzog come ovviamente ad un intellettuale a tutto tondo) sferra contro quella sorta di capitalismo calvinista, o comunque del tutto protestante, intriso d’ipocrisia borghese,  di moralismo individualista più votato verso una buona provvigione mensile che una serenità domestica. Più attaccato alla borsa da riempire che alle labbra d’una bella sposa (isabelle Adjani).  Al di fuori della comunità intesa come unione e fusione delle individualità necessariamente  esistenti, intesa quasi cristianamente come dismissione degli interessi particolari in nome e per conto di qualcosa di superiore; non v’è salvezza.

Ricordando velocemente il sogno prepotentemente  visionario e isolazionista di un Aguirre  ((1972) o il delirante autistico desiderare di un Fitzcarraldo (1982), in mezzo la commovente caricaturizzazione  dell’amor proprio deriso  sbeffeggiato perché solo  del Woyzeck  (1979). Questi sono i segni d’avvertimento per una Germania pre-riunificantesi, gli spettri che questa grande lucida mente paventa dinanzi alla sua nazione sofferente.   Solo in un secondo piano, quasi a margine, quasi scherzosamente, Herzog si diverte a sovvertire l’apparente tranquillità, l’equilibrio borghese e la rispettabilità  della cittadina nordica di Wismar (Herzog scelse un paesino di nome Delft in Olanda come quinta naturale)  colpita dalla peste dopo l’arrivo del Conte Dracula (Klaus Kinski), uno speculatore edilizio risvegliato da un agente immobiliare in cerca di fortuna (Bruno Ganz) . Mentre la popolazione si da agli ultimi disordinati bagordi in preda al delirio del morbo, i funerali seguono comunque una scia geometricamente perfetta,  solennemente inquietante quanto visivamente bellissima; percorso elicoidale, sezioni che tagliano il quadrato rinascimentale e commerciale d’una piazza nata e cresciuta per una comoda e locale assemblea notarile, propria dei notabili del posto, rigorosamente in rendigote e cilindro.  Vediamo allora qui una catarsi; il ritorno anche se funereo al silenzioso passo di una comunità,  dopo il caotico carnevale mortifero.  Sono sequenze didatticamente poste in evidente relazione di contrasto. Contrapposizioni.

Eppure non ha quasi nulla di aristocratico questo Conte Dracula affidato alla totalità disarmante di un Klaus Kinski  in cattedra; il personaggio è finalmente tolto dalla terrorizzante archetipicità  creata da Friedrich Wilhelm Murnau nel 1922;  dove vi era forsennata ricerca di forme prime attraverso l’uso avanguardista di luci e ombre,  archetipicità che tanto è piaciuta a tutto il Novecento cinematografico, modello di genere e tipo.  Ora in questa nuova opera  il mondo dell’oscuro, del non-morto, è visto da un punto di vista esistenzialista e sentimentale, è modernizzato, attualizzato. Nosferatu-Kinski dolcemente piegato nella sopportazione del tempo inutile, fisiognomicamente scavato dalla difficile accettazione delle futilità quotidiane, Nosferatu-Kinski sofferente per aver visto l’abisso e l’abisso non è la morte o la malattia o il dolore: è la spirale infinita del tempo che scorre senza un prima o un dopo.  Essere soggetti, da “subiectum”,  del tempo vuol dire perdere cognizione del se stesso e del proprio,  non vedersi e non esser visto perché il movimento reale e cinematografico presuppone una segmentazione di questo flusso che chiamiamo tempo, ma è soltanto un fascio di luce conica schermato che crea il movimento , il bagliore accecante dell’alba all’orizzonte è pura forza omicida.   Ecco allora la facilitazione stroboscopica del movimento che è illusione umana, ottica e cerebrale, suddivisa in attimi sempre più piccoli che sono frazioni di frazioni di secondo, propria di creature finite, necessariamente semplificanti.

Nosferatu il Principe della Notte è teoricamente eterno quindi  “non—riflettentesi”, cioè istinto puro, gesto puro immanente,  fuori dal tempo ordinario , presente in tutto lo spazio e invisibile perché totale, origamico. Per questo Klaus Kinski è preso quasi sempre a “tre quarti”, diagonalizzato, in un tentativo totalizzante dall’esito certamente fallimentare scontato in partenza ma del quale era importante lasciare traccia. E ancora Werner Herzog  ne fa una filosofia: per il suo conte Dracula necessita di schermare questo fascio di luce conica che chiamiamo tempo attraverso un campo, una quinta,  un fondo buio grasso e pesante, quasi tattile, dal quale emerge il pallore cadaverico dil Nosferatu, per contrasto di luce e non in profondità.  Come nel negativo di una pellicola o di una fotografia. La luce non è visitabile, si è visitati piuttosto, e di conseguenza trapassati, vaporizzati, annientati.

Avviene così anche per i paesaggi, le vedute, gli sfondi pseudo-romantici che proliferano durante il film che sono stati erroneamente e superficialmente presi per richiami ad una certa cultura iconografico-pittorica tedesca, sono invece ancora ripetuti tentativi, prove continue di “schermare” il conico fascio di luce proveniente dall’orizzonte.  Il paesaggio nasce da questo contrasto, è un incidente di percorso, un ostacolo necessario.  Dissolversi nella luce, correre e aspirare verso il vertice dell’orizzonte; anche questo poi alla fin fine è un dimettersi dll’individualità: il film finisce così. Lasciandoci dubbi e incertezze ma anche soddisfazione e piacere.  Opera completa e definitiva che eccede il genere e diventa classico, pur essendo sperimentazione  si eternizza come momento apicale della carriera del regista e degli attori, del cinema in generale.

 

 

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