L’ALTRA – Il roveto che non si consuma. Su Marina Cvetaeva

per un anno non ho scritto poesie;
non un verso: del tutto tranquillamente, 
cioè: i versi arrivavano – e se ne andavano: si adunavano – e si disperdevano: non li annotavo, e versi non c’erano (Voi scrivete e sapete che i versi non annotati non esistono, non solo non annotati ma non composti: sapete che questo è un lavoro, e che lavoro!). ed ecco- gli avvenimenti della Boemia, e da un mese, persino un mese e mezzo – cerco di sottrarmi: mi turo quelle orecchie, non voglio;
di nuovo scrivere e tormentarmi (perché è un tormento!), voglio fin dal mattino lavare e rammendare: non esistere! Come non sono esistita – per tutto l’anno – e –  siccome nessuno li ha scritti e nessuno li scriverà, è toccato scriverli –  a me. La Boemia l’ha voluto – non io: lei mi ha scelta: non io – lei. E, finito di scrivere, ho sentito di essermi tolta un gran peso dalle spalle, una montagna, tutte le montagne che le sono state sottratte – dalle mie spalle. (ss VII,533)“

(Marina Cvetaeva)

 

 

di Martina Luce Piermarini

Leggere Marina Cvetaeva, entrare nella sua scrittura di sete infinita, attraversare lucidamente i suoi bisbigli nella sconfinata notte moscovita, udire nella piazza l’eco sacrificale dei passi delle  piccola Irina e di Alja splendide sotto la luna immensa della Pasqua, ha la potenza e la dolcezza di un  amore infranto dal tradimento della morte . Come per tutte coloro le quali hanno vissuto la vita con la stessa candida, incrollabile fede con la quale hanno vissuto la poesia, ossia al di là di ogni scuola, esercizio formale, al di là di ogni compromesso e attaccamento materiale, avendo per arma la rosa solitaria e profonda della grazia, il folle slancio della disperazione e l’infamia della necessità, sola costretta ad un ennesimo esilio, terrorizzata dall’ennesima guerra nella Russia del 1938-41 (anno della sua morte), l’intera opera di Marina Cvetaeva, come scrisse Rainer Maria Rilke forse pensando anticipatamente proprio alla sua amata amica,  “ è di una indicibile solitudine…Solo l’amore la può abbracciare ed essere giusto verso di lei…”.

D’altra parte quante parole cancellate in attesa di un cenno umano. Ma gli uomini, si sa, nulla sanno dell’amore. Solo in Marina questa forza misteriosa si propagava da lei con un tale abbandono e stupore e da lei poi si ripartiva lanciata nel flusso della grande voce universale.

Parole ri- scritte in un nuovo taccuino cucito alla meno peggio sotto la poca luce di un mozzicone di candela… tra gli affamati e i senza nome Alja, bianco Angelo, morta per la fame, vive per sempre!

Zuppa di patate, che il resto bruci! Legna e carta, ardete! Parole ardete!
Sangue brucia!
Che divampi questa notte ogni preghiera!  – così immagino Marina mentre appunta tratteggia cancella. Superbamente prega, donando ogni sua stilla al mondo!

In questa sua super-visione d’amore i suoi ringraziamenti a Dio spesso divenivano incontenibili, ed è curioso come in lei ogni misura interiore, ogni misura vitale si moltiplichi in modo esponenziale, illimitato come direbbe Bonnefoy, filantropico nel senso più profondo ed esteso del termine che evidenzia perfettamente il suo carattere cosmopolita…

Marina amava “l’intera umanità in tutto il suo respiro“, e la sua poesia va colta alla luce di questo primario riflesso, visto nella sua accezione più dinamica ed intima; Marina Cvetaeva alimentò la propria ispirazione  nel crogiuolo della povertà e in una realtà che poco o niente offriva alle donne e madri sole, allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Stasera ho terminato di leggere il suo piccolo volume “Ultimi versi“, traduzione e cura di Pina Napolitano, e leggo che si tolse la vita. Non lo sapevo o forse l’avevo dimenticato… avevo dimenticato l’uccisione di una donna, l’uccisione di un’ anima innamorata dell’universo; terrorrizzata dall’ennesima guerra, non potè resistere alla vista di tanta malvagità,  così il 31 agosto del 1941 lei, che è stata una delle voci più straordinarie di tutti i tempi, decise di porre fine alla sua vita. Nessuno potrà mai comprendere o accettare il torto di quel sangue di poetessa che scintillava nel Suo petto innamorato!

[ ] Nulla dunque mi è stato dato,
per la festa da me donata.
Così il melo – fino all’ultimo
regala via i suoi fiori a maggio!

Amore per i suoi amori, amore per i suoi bambini, amore per i suoi taccuini, amore di non possedere nulla, amore per una razione di farina –  poca farina, amore per la  patria che è ogni patria, amore per la pace che non abbiamo quasi mai, amore per l’esilio, amore per la notte, amore per la vita, ogni vita, amore per l’Amore.

Marina Cvetaeva

 

 IL TAMBURO

Per le città della Boemia cosa mormora il tamburo?
Dato- dato- dato
senza gloria – il paese senza lotta – il paese.
Le fronti – sotto la cenere dei pensieri

buia – buia- buia…

– Bum!
Bum!
Bum!

Oppure non è il tamburo –
per le città della Boemia
(mormorano i monti? Sussurrano i sassi?)
ma nei cuori miti dei cechi –
il fragore
dell’i – ra:
– Dov’è
la mia
dimora?

Per le città defunte
proclama il tamburo:
– Il corvo! Il corvo! Il corvo!
Nel castello di Hradcany s’è annidato!
Alla finestra gelata – come incorniciato
(Bum! Bum! Bum!)
L’Unno!
L’Unno!
L’Unno!

(30 marzo 1939)

 

 

 

 

 

 

5 MARZO

L’altante – un mazzo di carte:
lucido, a furia di mischiare!
Si congratula – ogni marzo:
un nuovo paese, porzione!

Pesante il tributo di marzo:
terre- catene di monti –
e che giocatore di carte!
Che tavolo da gioco!

Le mani piene d’assi:
re senza testa
coperti d’onoreficenze,
furbi – fanti.

– A me, anche il grasso, le ossa!
Un gioco – da tigri!
Ricorderà tutto il mondo
i ludi di marzo.

A briscola – gioco
con la carta d’Europa.
(perché il colle di Hradcany sia –
una nuova rupe Tarpea! )

Contro l’impresa malvagia non una
cartuccia: non un praghese gestaccio.
Che cos’è mai Praga! E cosa- Vienna!
Contro Mosca – osa!

Si riverserà – la pioggia ceca,
si ritorcerà – l’oltraggio di Praga.

Rammenta, rammenta, rammenta, duce –
le Idi di marzo!

 

 

 

 

 

***

Una volta a un coetaneo (oh rame
dei miei capelli! Viva vena!)
giurai di non invecchiare,
aihmè: di non ingrigire – lo dimenticai.

Senza credere alle patrie nevi –
[ ]
lui andò dritto dagli dei:
dove non si invecchia, né si ingrigisce…
[ ]
[ ]  vecchio
ho cantato – l’argento,
e lui – mi ha inargentata.

(8 dicembre 1940 )

 

 

 

 

 

 

Splendenti così chiare
fin sul far del giorno –
chi accompagnate ,
mie lanterne?

Chi proteggete,
incoraggiate,
illuminate,
mie lanterne?

***

[ ] I pesci divini
dei giardini delle Esperidi   [ ]

(Marina Cvetaeva)

 

LEZIONE TEMPORALE DI UNA NUVOLA

Esistere solo per essere quello per cui non sono mai esistita
– capelli rossi il vento
(l’intera distesa russa chiusa dentro di me)
un camicione quadrettato lungo e azzurro
e il fatto che a volte bisognerebbe potersi sorvolare

– o almeno potenziare l’avanzamento instabile delle mandrie
(buio che si apre)
il tuo piumaggio tra le onde di questo iride incendiata

– come fosse vero il tempo delle fiabe
spazio che corre su di me / ontologia dell’aria

o più semplicemente – luce –
una bambina vissuta troppo a lungo, qualcosa di straordinario.

(Martina Luce Piermarini)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

( Martina Luce Piermarini )

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