Una poesia misurata. “La luce di taglio” di Elisabetta Pigliapoco

di Riccardo Canaletti

Ragionare sulla poesia è compito complesso, compito che molti grandi hanno fatto loro, da Leopardi a Bigongiari, da Bonnefoy a poeti viventi come Milo de Angelis (lui che, durante il post-sessantotto, scansava la politica per la Parola, la Parola in sé, cercando qualcuno che “amasse la poesia” – così scriveva nelle bacheche universitarie). Ma questo ragionare sulla poesia non è un obbligo, un passaggio obbligato. La poesia di oggi, che sembrerebbe affetta da intimismo spicciolo e superficialità cavalcante, è invece semplicemente un altro percorso. La poesia, infatti, al netto della riflessione sulla poesia, è e resta tale grazia alla mietitura quotidiana, al setaccio, non alla difficoltà o alla complessità filosofica del pensiero “poetante” alla base. Non tutti sono Leopardi, non tutti sono Luzi. È mio parere, personalissimo, che filosofia e poesia possano camminare insieme, arrivando a realizzare la priorità della prima sulla seconda (“Les jugements sur la poesie ont plus de valeur que la poesie”, scriveva Lautreàmont). Ma questo non toglie valore a una poesia temperata, moderata, “apparentemente semplice”, che comunque e sempre si distingue dalle banalità in voga, come pure dal poetese, o dal vuoto cognitivo di tanta poesia contenutistica che con nonchalance liquida la forma. Ci piace piuttosto, nel rispetto e nella prosecuzione della nostra lirica, rinvenire le tracce di un andamento che si rinnova, senza tuttavia perdere o sminuire la lezione di quanto abbiamo alle spalle.

La luce di taglio, titolo esplicativo, è l’opera poetica di Elisabetta Pigliapoco, ospitata dalla collana diretta da Umberto Piersanti per Archinto, “La città ideale”; riprendendo dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia le prime righe, potremmo arrivare a dire che la poesia della Pigliapoco si inserisce in quella linea, frequentata in questa epoca, che mira ad una immediatezza nella percezione di un qualcosa di più. Potremmo chiamare questo “sovvenire” una evocazione, ciò che esce fuori dopo una lunga frequentazione con un dato fisico. Su questo punto, possiamo riconoscere (insieme a qualche analogia con il canto marchigiano) soprattutto le differenze con una poesia contemplativa, concettualmente a volte intrattabile per difficoltà del dettato; qui, invece, ogni poesia, qualunque sia l’argomento (particolare rilievo hanno i testi sul dolore), riemerge con naturalezza dal proprio campo semantico senza perdersi, senza dissimulare, misurandosi costantemente con l’evidenza dell’osservazione, la pervasività delle esperienze di vita che, pur accolte nel tempo, non cedono al filosofare facile sui temi archetipici. I versi sono diretti: diretti nel senso di netti e nel senso di orientati. La poesia di Pigliapoco è consapevole, conscia delle proprie modalità di espressione. Una poesia misurata che ha la grazia (e la sapienza) del proprio porsi così e in nessun’altra maniera che così. Una sorta di compiuta e convincente autoregolamentazione, in cui linearità non significa in nessun modo scontatezza. Con La luce di taglio, piuttosto, Elisabetta Pigliapoco ci consegna una raccolta profondamente rispettosa e – vorremmo dire – accogliente della parola poetica e della vita.

Elcito

Il capitello mostrava le sue linee
curve e azzurre alla luce bianca
d’una piccola torcia a manovella

ma l’ombra più chiara l’ho trovata
nella strana pianura sopra il monte
e tronchi stretti e fitti
quei ceppi giganti,
alberi soli e immensi
nella vasta faggeta che declina
appena, tra erbe basse e chiare

splendevano i cardi luminosi
il fiore salto sopra il gambo
qualcuno d’argento già ricaduto
come lieve soffione dietro al vento

eravamo un originale assortimento
a salire i gradini del paese
al nudo scoglio abbarbicato
chiuse le finestre piccole
sul vuoto grande e verde
dove calda l’aria, a raffica
sibila anche a luglio

ci saremmo tornati tutti
più tardi, ma i tuoi posti
li abbiamo visti un venerdì
dell’anno che ci divideva

rimangono ora secche sulla mensola
e troppo fragili le foglie
di quegli alberi che non sapevamo

Vento di novembre

fili d’erba gialla
scolorano il giardino.
Dal prato ogni resistenza
vana al passo consueto
che lo abita.

“novembre ti sarà lieve
se conservi il tepore del giorno”

Ma dentro s’alza
un vento impercettibile
come quello che alla sera
agita i bambini
e li fa piangere.

 

Elisabetta Pigliapoco

Elisabetta Pigliapoco è nata nel 1972 a Jesi (AN), dove insegna Lingua e letteratura italiana nelle scuole superiori. Ha curato insieme a Maria Cristina Casoni il volume La terra e le stagioni. Il modello marchigiano nella letteratura contemporanea (Fernandel 2003). Nel 2005 è uscito Fuori dal coro. L’opera di Massimo Ferretti, (peQuod). Nel 2006 ha ha firmato insieme a Massimo Fabrizi il capitolo Novecento del volume Introduzione alla letteratura delle Marche. Nel 2010 ha curato Patrie poetiche. Luoghi della poesia contemporanea (peQuod). Nel 2018 pubblica per Archinto il libro di poesie La luce di taglio per Archinto editore. Collabora alla rivista «Pelagos» ed organizza eventi e incontri di poesia e narrativa contemporanea. Sue poesie sono uscite su «Pelagos», «clanDestino», «nostro lunedì», «Liberal».

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