Lettera a Gianluca D’Andrea – di Tommaso Di Dio

Tommaso Di Dio (foto di Dino Ignani, Tutti i diritti riservati)

Continua il botta e risposta epistolare sulla poesia tra Tommaso Di Dio e Gianluca D’Andrea, avviato dal post ‘Piccolo discorso sulla poesia’ (Le parole e le cose, 4 ottobre 2019 – qui) e proseguito su Poesia del nostro tempo (‘Per un discorso più ampio sulla poesia, 19 ottobre 2019 – qui). Nella speranza che il discorso a due ampli il suo raggio d’azione e coinvolga altre voci. Buona lettura

 

Caro Gianluca,

 

innanzitutto grazie della tua lettera e del tempo che hai speso a leggere con attenzione le mie parole. Perdonami del tempo che ti ho fatto aspettare per questa mia risposta, ma la vita – si sa – ci rapisce e distrae. Mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lettera, anche perché il mio intervento era pensato per essere l’apertura di una tavola rotonda in cui i temi e le parole, mie e dei miei compagni, avrebbero dovuto essere oggetto di confronto, discussione, dibattito. Fin dall’inizio insomma lo scopo del mio intervento era quello di provare a suscitare questioni, aprire valvole piuttosto che chiuderle e risolverle; anche perché i pochi minuti e la natura dell’intervento non garantivano le condizioni per esaurire alcunché. E poi: è forse auspicabile esaurire qualcosa? Ma andiamo subito al contenuto della tua lettera, ai punti su cui mi chiedi chiarimenti.

 

Innanzitutto l’imbarazzo darwiniano. Evocavo quel passaggio di Stephen Gould e la riflessione di Darwin soprattutto come reazione al titolo del convegno.  Il titolo era: Ancora la Lirica? Si trattava infatti di evocare lo spettro del “genere lirico” e a me non andava di mettermi a disquisire su di un tema che sento molto distante. Nella mia testa allora non smetteva di risuonare con una certa ironia un titolo deformato a cui al primo si sovrapponeva, che poteva essere scritto così: Ancora i Pesci? “Pesci” è una parola comune, che usiamo tutti i giorni, ma se la consideriamo dal punto di vista della biologia non dice granché: se infatti approfondiamo le forme di vita degli animali che per lo più vivono nell’acqua, siamo costretti ad affermare che non esistono in realtà “pesci”, perché in questa categoria ci sono così tante e così diverse varietà di vita che la parola non “significa”: è troppo vaga e superficiale. Ecco, allo stesso modo, mi risuonava la parola “lirica”, così come la usiamo di solito: “afferra” un insieme troppo vasto di fenomeni, senza capacità di profondità, senza snudare nulla, senza muovere alcunché. A darmi fastidio, tra l’altro, era il fatto che non ho mai letto una poesia attraverso il filtro del genere. Non mi è mai capitato davanti ad un testo di chiedermi preventivamente: “è o non è una poesia lirica?” Una domanda di questo tipo non credo aiuti a penetrare con maggiore intensità il testo che si ha davanti. Credo anzi che voler etichettare un testo in una sotto categoria classificatoria in base ad una presunta “essenza”, così come ci insegnato la storia dell’aristotelismo che tu giustamente ricordi, sia un’operazione forse utile a breve termine, ma nel campo della scienza estetica infine oziosa. Può andare bene se si ha in mente uno scopo preciso, un utile, una tesi forte verso cui orientare l’analisi (per esempio come ha fatto Jonathan Culler nel suo Theory of the Lyric). Ma se parliamo di poesia in termini generali non credo giovi molto: ci si ritrova in mano semplicemente un fascio di caratteristiche che individuano, al massimo, il perfetto campione medio; ma sappiamo tutti che molto spesso le forme testuali che abbiamo tramandato erano proprio quelle che esulavano da una pregiudiziale conformità ad una struttura predefinita (pensa la Commedia!). A me pare sia questo, per esempio, il rischio che corre Paolo Giovannetti nel suo recente – e per altri versi meritorio – La poesia italiana degli anni Duemila.

Di tutt’altro senso è invece una ricerca genealogica. Quest’ultima infatti traccia diagrammi, schemi ipotetici di discendenza a partire da alcuni resti stilistici, suscettibili di essere sempre ampliati e allargati (anche – e sarebbe auspicabile – a diversi media): non è insomma orientata a determinare alcuna “essenza fissa”, anzi, semmai a disegnare una mappa aperta di scambi fra “fossili”, una rete di influssi fra singolarità archeologiche, fra tracce stilistiche; una mappa sempre disposta a sovrapporsi ad un’altra, non appena si prendano in considerazioni elementi diversi. Non trovo perciò alcuna contraddizione fra lo sbalordimento linguistico che mi auspico un testo possa suscitare nel lettore e lo studium che poi ne potrebbe seguire. Un conto è la scrittura di una poesia, un conto sono gli studi e la scrittura che ne seguono. Nel mio breve intervento, troppo brevemente sì, cercavo di tenere accostate in un medesimo discorso le due diverse prospettive: forse ne è uscita una confusione.

A questo proposito, il finale del mio intervento era diretto in primo luogo ai poeti, non agli studiosi di poesia. Se mi piacerebbe leggere negli studi di poesia una ricerca genealogica a partire da microsegmenti stilistici o individualità testuali (cosa che forse io non so fare: mi piacerebbe sentire Davide Castiglione su questo argomento), lì, da scrittore, cercavo di auspicare una poesia che non fosse monodimensionale, ma aperta, «plurisensa», per usare un aggettivo caro a Sereni: precisissima sì, oggettiva, ma spalancata. Per mantenere davanti agli occhi l’idea di una parola poetica in quest’apertura non definitoria, in una divaricazione costante che descrivesse un campo di forze più che un procedimento testuale, ho adoperato – lo so – due aggettivi molto ambigui: “artistico” e “rituale”. Cerco di spiegarmi un po’ meglio, anche se temo che non riuscirò neanche qui, tanto queste due parole descrivono scenari che necessitano di una vita per essere appena abbozzati.

Nel primo aggettivo, in me risuona la forza ordinatrice della parola, quella – solo per intenderci –  che Nietzsche avrebbe forse chiamato apollinea; ovvero la capacità che la parola ha di comporre mondi, illusionistici, visionari, ordini irreali. L’etimo della parola “arte” indica proprio l’adesione e il movimento, la composizione, l’articolazione dei disparati. È all’altezza di questa forza, a mio parere, che si situa la capacità utopica della parola, ovvero quella di poter dire il mondo anche come non è, o non è ancora: dire il sogno di un mondo possibile, di un mondo altro da com’è. Questa dimensione della parola a mio parere è oggi messa troppo spesso ai margini della riflessione. In poesia, ci si accontenta troppo spesso di un realismo che è, infine, arido adattamento, depressivo adeguamento a ciò che è. La poesia può fare di più: forse, mi dico, deve. Non può essere soltanto presa d’atto dell’esistente, dovrebbe essere – ha il dovere di essere, un dovere che le discende dalla sua stessa tradizione – costruzione di un mondo altrimenti: parola in rivolta, per usare un termine del pensiero di Furio Jesi. Mi piacerebbe, insomma, che la poesia potesse essere un supporto strumentale a chi cerca gli attrezzi per poter incominciare a immaginare un’alternativa. Le parole, le idee: non tutto, ma molto inizia da qui, da come parliamo, da quali parole ci mettiamo in bocca, da come le scandiamo.

Nel secondo termine, “rituale”, invece rievocavo di scorcio tutto il legame che la parola della poesia ha, fin dalla sua origine, con il rito, ovvero con il “dispositivo della verità”. Se ci mettiamo all’altezza di questa storia, comprendiamo che la parola del rito era considerata la forma che indicava le cose come stavano, la parola che, performativamente, sanciva l’accordo fra i presenti su quanto fosse “veramente” accaduto. Pensiamo alle parole del prete durante il matrimonio o del giudice che legge un dispositivo, al termine del processo: una parola che sancisce pubblicamente e performativamente la vita di una persona e la vincola ad agire di conseguenza. La parola del rito è insomma la parola che fa realtà. Da qui il legame straordinario che ha con il giuramento, con la promessa: una parola a cui deve seguire un comportamento, una parola inevitabile, perché obbliga, stringe e costringe, perché sintesi dei molti che lì hanno creduto. Ecco, una parola poetica che oggi trovo interessante deve tenere insieme (almeno provarci) queste due dimensioni: da un lato aprire l’immaginario del contemporaneo verso un’area di “ancora impossibili”, dall’altro provare a indurre i lettori a perseguirlo, a tradurlo in realtà, ovvero a farne altro.

Se sono riuscito un poco a spiegarmi, capisci bene perché non comprendo quando dici che io abbia auspicato ad una «una sintesi antidialettica e, per questo pacificatoria, tra parola e mondo». La mia posizione ideale è anzi radicalmente antidialettica, perché non vedo alcuna sintesi finale; è semmai rizomatica, nel senso che, mantenendo aperti gli estremi e mai identificati i poli, io spero che tutto scorra nel mezzo dei possibili. Anzi, laddove vedo identità (per es. “Identità Lirica”) mi spavento: temo la sclerosi.

Penso che su questa idea di “Realtà” non ci siamo proprio capiti. Quando usavo quel termine non intendevo “ciò che c’è”; in questo senso è sì, come dici tu: la società in cui viviamo è già un «delirio dei social». Ma di questo se ne occupa la sociologia, che descrive il presente secondo i miti del presente. Quello che intendevo con il termine “Realtà” è l’aspetto involutivo di ciò che c’è (uso adesso un termine di Deleuze), ovvero l’insieme dei fasci e delle forze che, nell’attualità, giocano ad aprire corridoio di mutamento e spaziatura contraddittoria, che dunque erodono ciò che c’è e lasciano intravedere spiragli di possibilità, oltre ogni ambizione di definire monodimensionalmente ciò che c’è. Proprio per questo, poiché siamo già nel «delirio dei social», la poesia non dovrebbe dire di questo, ma essere altrove, portandone lo stigma: apertura, ferita, vulnerata alterità rispetto a ciò che c’è, mai anodina descrizione di ciò che c’è. In questo senso, sento che ci può venire in soccorso un manipolo di versi di un poeta che amo molto, Michele Ranchetti, dal suo libro Verbale del 2001: «Io come il ragno tesse/ la sua tela traendola/ da sé da sé ed essa/ è per lui nido territorio e arma». Ecco la poesia nella mia testa dovrebbe poter tenere insieme questa triplice tensione: da un lato qualcosa di intimo e quasi biologico, come il secrèto del ragno e in questo senso «nido», luogo nascosto, osceno, ove tutto è possibile, perché nasce protetto; dall’altra però «territorio», spazio di cattura dell’esterno, avventura in movimento, luogo che si installa in una porzione di esistente, che fa corpo con la realtà; dall’altro infine «arma», ovvero una parola capace di scalfire la propria ideologia del contemporaneo, una parola che possa servire, abbia anche il coraggio di essere utile.

Tutt’altro, dunque, dal viaggio «sognante» che hai intravisto nelle mie parole. Quello dei logonauti era un modo per mettere a fuoco una cosa precisa: senza un’esperienza linguistica non c’è poesia. Non basta di certo essere militanti nel senso comune della parola, essere «vedetta che trascura la propria imbarcazione a favore di una responsabilità collettiva»: non basta essere bravi cittadini per essere poeti. È la militanza dentro la lingua, attraverso i linguaggi, anche a discapito di una biografia socialmente accettabile, che fa di una poesia un patrimonio collettivo. Non so: la poesia di Rimbaud è politica, a mio modo di vedere, o quanto meno lo è stata, sebbene il ragazzo di Charleville non abbia proprio nulla dell’impegno “a difesa della collettività”; eppure la sua lingua, il suo linguaggio, è scorrimento, è divaricazione, è trascrizione in rivolta del mondo. In un modo analogo, solo per fare un esempio, la poesia di Francesco Maria Tipaldi (che so che stimi molto) è una scrittura assolutamente presente al nostro tempo, senza però smettere di individuare le faglie e le zone di scorrimento verso un altro tempo; che rimane assolutamente altro, cioè non individua alcuna “Terra promessa”, ma indica un processo a venire. Per me, nella metafora dei logonauti era importante mostrare quanto fosse facile cadere nel tranello, per cui “impegno civile = impegno letterario” (falsa equazione del padre di famiglia) oppure “impegno civile = lingua della rivolta” (falsa equazione dell’anarchico borghese). Non ci sono garanzie, non ci sono prescrizioni, non ci sono formule, ma percorsi, itinerari, biografie. Una lingua, fosse anche la più sperimentale, tutta piegata al significante asemico, può risultare biecamente conservatrice in un certo contesto e invece la limpidezza semantica possono rivoltare il cuore e la mente. Penso concretamente a due esempi: la poesia di Bei Dao nella Repubblica Popolare Cinese degli anni ’80, la cui oscurità e sinteticità antirealistica erano, in quel momento storico, in quel contesto, un’accusa fortissima al conformismo coatto del regime; e, al contrario, la poesia di Umberto Saba, la cui chiarezza antiretorica, erotica e oscena, durante gli anni del regime, era la vivente manifestazione di una differenza irriducibile al canone estetico del fascismo.

Al netto delle differenze, sono pienamente d’accordo con te quando scrivi: «In altre parole, non sorvoliamo un abisso ma ci siamo dentro da un pezzo e abbiamo il compito, questa la vera urgenza del presente della parola e non solo, di rendere manifesta questa che dovrebbe essere, ma ancora non è, un’evidenza». E sono d’accordo che sia utile assai riprendere la questione del «mito», che è  «senso e forma a un tempo», liberandola preventivamente dalle incrostazioni che ne hanno fatto una parola “sublime”, mentre, appunto, il mito non è altro che la parola comune, la parola di tutti. Cosa fare di questa parola-di-tutti mi sembra sia ciò di cui il poeta debba occuparsi per lo più: proteggere le parole, e dal fascino univoco del significato (pulsione del Padre) e dalla malia vuota del significante (pulsione del Figlio). È un equilibrio laborioso, tutt’altro che intenzionale ma neppure caotico. La poesia mi sembra accada quando ci si situi al centro esatto di questo sistema mobile di tensori (e nel “ci” si deve anche mettere le politiche di fruizione: come giungiamo ai testi? Quanto i mezzi di riproduzione della poesia impediscono o permettono l’innesco del processo?).

Di quanto scrivi, non mi è chiaro però un aspetto. Cosa intendi esattamente con la frase «essa (la poesia) è la delega che svela costantemente “la falsa morale”, restituendo il Reale soltanto attraverso la sua stessa alienazione»? In generale – se mi pare di capire bene quanto scrivi – il finale della tua lettera, mi stupisce. Non credo di aver mai detto che la poesia possa servire un bene predeterminato, ma neanche che la poesia sia soltanto una presa d’atto e un’amarezza. Non vedo alcuna felicità (nel senso di ”fertilità”) in una pratica che sia soltanto ispirata ad un dover-essere: come se la poesia dovesse\potesse essere soltanto amara preso d’atto della nostra alienazione. Finivo su quella imprendibile poesia di Zanzotto (imprendibile perché infinita), proprio perché mi sembra indichi una bontà della parola poetica che si situi, diciamo, al di là del bene e del male. L’invocazione finale non è orientata ad essere tutti “più buoni”, certo che no, non è uno spot della Kinder e non l’ho mai pensata così. Il buonamente è inteso in senso immanente e meccanico, come a dire: che il mondo sia una buona macchina, ovvero scorra e si muova, che nulla l’ostacoli. La poesia, ecco: non ciò che fa scorrere il mondo (il mondo scorre benissimo da sé), ma ciò che ci fa stare dentro il suo scorrimento, sentendone la potenza e l’occasione felice. In altre parole, il canto della macchina.

Tuo,

Tommaso

 

 

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