In ricordo di Mario Benedetti

di Gabriel Del Sarto

Due ricordi personali (di Gabriel Del Sarto)
Non molto tempo fa, dopo aver letto un articolo a lui dedicato su una rivista on line, il mio pensiero era andato ad una sera di maggio del 2006. Guido Mazzoni quel giorno mi invitò a cena, a Pisa, per farmi conoscere l’autore di una raccolta che entrambi consideravamo straordinaria. Mario Benedetti si presentò con mitezza e quasi con ritrosia alla fine dell’incontro firmò la mia copia di Umana gloria. Durante la sera, ricordo, lesse, su mia richiesta, una delle mie poesie preferite di quel libro, una delicatissima poesia d’amore: A D. Forse contravvengo a un patto implicito di quella sera (almeno per come lo riportò lui nella dedica al libro), ma ricordo l’emozione che ci colse, dopo la lettura, quando Mario confessò quanto quella presenza mancasse in quel momento nella sua vita. 

La poesia (riportata per intero nell’intervento e nella selezione di Michele Bordoni, qua sotto) ha un incipit fulminante, che ancora oggi, ogni tanto, mi torna alla mente, mentre sono a casa e guardo mia moglie, i miei figli, le persone che con me adesso trascorrono i giorni della sospensione del tempo e della cattività:

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti

Oggi, nel ricordarlo, mi sono tornati in mente anche altri giorni, quando un suo nuovo libro giunse in redazione. Collaboravo, a quel tempo, con Transeuropa come redattore e mi occupavo della poesia, con particolare attenzione alla neonata collana Nuova Poetica, il cui comitato era costituito da Andrea Anfribo, Alberto Casadei, Guido Mazzoni, Laura Pugno e Gianluigi Simonetti. Quel comitato, come primo libro, ci propose quel capolavoro che è Materiali di un’identità, raccolta sfuggita, non so perché, all’edizione di Tutte la poesie uscita per Garzanti nel 2017. Di questa raccolta ricordo le discussioni fra la redazione e i curatori per la scelta della copertina, per l’impaginazione, per i font da usare nei titoli. Ma questi sono ricordi, ritagli, della mia identità. Quello che si trova come dono per tutti si legge in quel volume e meriterebbe di essere nuovamente raccontato, discusso. Ripubblicato.

Come scrisse Franca Mancinelli, qui “chi scrive ascolta estraniato se stesso, interrompe la propria voce, riavvolge indietro il nastro in un gesto istintivo, creando strappi, ripetizioni, a seconda che la mente censuri o cerchi qualcosa nel fondo della memoria”. Uno scavo dentro se stesso e dentro la tradizione letteraria europea, compiuto con mezzi eccezionali.

Le cose che Benedetti può insegnarci con questa raccolta, senza mai dare l’impressione di volerlo fare, sono molte. Dalla composizione di un libro aperto, nervoso, differente e policentrico, alla riflessione sul rapporto fra “la superficie” dell’esistenza e l’esperienza interiore. Il finale del libro, L’azzurro, tocca uno dei vertici della sua produzione. Ne cito, in chiusura, solo parte 2 e la 5, in un ideale controcanto che talvolta amo rileggere. 

L’azzurro

2

Finestra della pioggia.
Chi piange?

Seguimi, la luce è questa.
Gli spettri, visibile.

Se non ti vedo, io non mi vedo.
Schianti di porta e passi.

Morire sarebbe dolce darti
la vita. Dartela.

5

Ecco l’azzurro.
due, siete stati, diverrete, diverrò.
Ecco l’azzurro.
Darvi la vita, darmi la vita.
Dillo.

 

di Michele Bordoni

Una selezione di poesie (di Michele Bordoni)

Ho l’abitudine di fare delle orecchie alle pagine dei libri che più mi colpiscono, in cui ritrovare, una volta passato il più fresco ricordo, le parole che restano o che devono restare. Le riapro stasera, per testimoniare che Quello che resta, dopo aver parlato, c’è.

C’è, e ci sarà.

 

 

Da Umana Gloria 

*
Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.

Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.

Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.

 

*

A D.

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dove la paura in ogni mano, o braccio, o passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

 

Da Pitture nere su carta

*

Colori 10

                                               madre

E dalle tue foglie viene la vita,
dalle foglie vedute nel muro che guardi.

E niente è qui di quello stasera.
Oh gli anni che hai e che ho.

Lunga non è la mia vita, quanto la tua.

Quello che resta, dopo aver parlato, c’è.
Non qualcuno. Che alberi erano quelli,

mano e nervature, morbide, fresche.
Dove sei? Fondo di casa, fermo e vagolante,

nel colore bianco della sera a dicembre,

 

da Tersa morte

*
Vedere nuda la vita
mentre si parla una lingua per dire qualcosa.
Uscire di sera rende la sera più bella
ma è il poco solo obliquo la sera senza parole.
Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose.
Adesso le cose sono sole,
non c’è promessa del tuo svegliarti
e continuare con le ciabatte, le tazze, i cucchiai.
Non è valsa la pena affaccendarsi.
Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi
a perdere sempre da prima.

 

*

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

 

Si unisce al ricordo anche Gian Mario Villalta, attraverso la lettura in videoclip di A D.

 

 

Mario Benedetti

 

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