iRacconti di NC – Francesco Cangioli, “Nel buio”

Francesco Cangioli

Quando il vento sibila tagliente spazzando le vie della città le vecchie case, arroccate nei quartieri come grandi fossili viventi, lamentano i loro anni con cigolii, scricchiolii, rumori sinistri che sembrano provenire dalle loro stesse viscere. Chi le abita vi si assuefà con gli anni, smette di tendere le orecchie nella notte e accetta quei gemiti minacciosi come si accetta che all’estate segua l’autunno. Sono quelle le case che preferisco. Rimango a lungo seduto sul marciapiede a osservare l’andirivieni di padri, madri, figli, nonni, amanti e quando le porte si spalancano provo un brivido bestiale che mi risale le vertebre, piantandovi gli artigli come un insetto mostruoso lungo il tronco di un albero. Poi si chiudono e ogni volta sembra irreversibile, il suono sordo che producono mi spezza le ossa e mi riduce a una montagna di rottami, un burattino con gli arti lussati, scomposti, con la testa che rotola lenta in mezzo alla strada, palla da bowling senza birilli. Impiego sempre molto tempo a ricompormi, cerco con angoscia ogni frammento e lo rimetto al suo posto, o almeno ci provo, ma non sempre ci riesco. Così può capitare che quando un portone sbatte con troppa forza un pezzo di me vada perduto, magari cadendo in un tombino o restando nascosto fra l’erba delle aiuole, quelle che nessuno può calpestare, che nemmeno io calpesto. Forse a volte un cane va a farci i bisogni e trova quello che ho perduto, poi lo porta nel suo giardino e lo seppellisce. Quando penso così mi sento sollevato. Lentamente, smarrendo brandelli della mia identità, mi faccio più leggero e credo sia per questo che nessuno riesce mai a sentirmi arrivare. Già, perché prima o poi arrivo da tutti, non rinuncio a nessuno, ma nessuno lo sa. Lo sappiamo solo io e la mia ombra, che a volte, quando viene mezzogiorno, sparisce chissà dove abbandonandomi a me stesso. Ho notato che tutte le ombre lo fanno e a me non piace, non capisco perché si comportino in questo modo, così, in certi momenti, quando torna le grido addosso e le domando dov’è stata. Lei non mi risponde. Parlavo delle vecchie case. Il padre è un uomo molto alto, ha le spalle robuste e una barba incolta che lo fa assomigliare a un musulmano o a un boscaiolo. Io non ho mai visto un boscaiolo. La madre, invece, ha tette grandi e occhi scuri, tiene sempre in mano una borsetta rossa e sembra gentile. Poi c’è la figlia, avrà più o meno sei anni e invece di camminare trotterella felice come un puledro. Non ho mai visto nemmeno un puledro. Ho scelto loro perché dormono tutti nella stessa camera da letto. Quando ci sono persone che dormono in stanze separate è più pericoloso e non mi piace altrettanto. La sera sta calando e sembra un sudario nero carbone che precipita lentamente sui tetti, come a dire che il giorno è morto e tutti devono rientrare e aspettare che rinasca, oppure uscire a ubriacarsi e fare sesso e altre cose che non conosco e che non ho mai fatto. È il momento che prediligo, perché finalmente resto da solo nelle vie dei quartieri residenziali e ho una buona scusa per non essere notato, mentre prima, quando c’è il sole, se non mi notano è perché non vogliono farlo. Stanotte ci sarà un vento poderoso, correrà sull’asfalto e s’insinuerà sotto le porte e attraverso gli infissi, farà tremare i vetri e sbattere le finestre, farà cigolare il legno e stormire le fronde. Grazie, vento! Entrerò come uno spiffero senza chiedere il permesso, anche se non si può. Nemmeno lui, quando ero piccolo, avrebbe potuto, però l’ha fatto e io me lo ricordo ancora. Ero sdraiato nel letto dei miei genitori, mio padre russava e anche mia madre aveva il respiro pesante. Io non riuscivo a prendere sonno e me ne stavo tranquillo con gli occhi aperti a guardare il buio tutto intorno a me. Vidi la sua ombra immobile in un cantuccio, alta e più scura dell’oscurità. Non mossi un muscolo, ero paralizzato dalla paura, eppure lui si accorse che l’avevo scoperto e scivolò via senza fare rumore. Allora mi misi a gridare e mio padre accese la luce, il buio sparì d’un tratto e non rimase altro che la stanza com’era sempre stata. C’era un signore prima, dissi ai miei genitori, Smetti di dire stronzate, risposero loro, e facci dormire, cazzo. Così non ne ho più parlato e quell’uomo tremendo mi è cresciuto dentro talmente tanto che non so più chi è lui e chi sono io. Ma in qualche modo io sono diventato lui. È bello avere un segreto e questo è il mio. Il padre ha messo fuori la spazzatura ed è rientrato in casa chiudendo la porta a chiave, proprio come mi aspettavo. Chi crede che il buio sia solo l’assenza di luce commette un grave errore. Il buio palpita ed è appiccicoso, s’incolla alle pareti e si addensa fino a divenire quasi solido, tanto che in un luogo che sia buio da tempo si fa addirittura fatica a camminare. Per vivere nell’oscurità bisogna farsi oscuri, mimetizzarsi come camaleonti, così diventa più facile avanzare senza restare intrappolati nelle tenebre, che altrimenti possono essere sabbie mobili. A volte, quando esco dalle case degli altri, passeggio finché non trovo un lampione ed entro nel fascio di luce, poi mi scrollo il buio di dosso prima di andare via. Adesso, comunque, tutte le lampade si sono spente e fra non molto potrò entrare. Mi viene da ridere perché sono felice di farmi spiffero e scivolare silenzioso come una falena. La forcina entra a meraviglia dentro il buco della serratura e con l’orecchio poggiato al legno ascolto la musica dei click che si succedono finché, con gioia, non posso spingere la porta. La casa mi si dischiude davanti come un fiore notturno e quel brivido quasi doloroso ricompare. Respiro il silenzio e intanto cammino adagio per l’ingresso, esploro la stanza a tentoni e quando incontro un oggetto lo sfioro con le dita, poi lo stringo più forte per sentirne la consistenza. Tocco tutto quello che posso, perché le mie mani hanno fame e devo nutrirle adesso, queste mie brave mani che sanno aprire i portoni e muoversi delicate e precise. Vorrei essere anch’io come le mie mani. La luna getta un chiarore spettrale sul pavimento della cucina, formando una pozza di luce che sembra latte versato. Mi fa tremare un poco, così mi affretto verso le scale. Devo salire al piano di sopra con prudenza, mi sono persino tolto le scarpe e le ho lasciate sul primo gradino. In punta di piedi mi sollevo come un essere d’ombra che fluttua verso la sua meta. Il pavimento è freddo, ma sento i loro respiri e li immagino ondeggiare caldi sopra le lenzuola a formare delle nuvole di vapore che poi si allontanano e si mettono in fila guidandomi fino ai loro letti. La porta della camera è socchiusa, così è semplice non fare rumore. Entro nella stanza e resto immobile. È così bello fissarli nel buio, imparare lentamente a distinguerne le sagome mentre dormono e sognano e russano e a volte parlano ignari, farneticano e io ascolto ogni parola, ricordo ogni parola e ogni sospiro, ogni gemito e ogni colpo di tosse. Più di ogni altra cosa desidero i loro odori.

F. Davoli, “Mirror”, foto rielaborata

A volte mi avvicino ai letti e inspiro a fondo, mi riempio le narici ed è come se tutto ciò che loro sono entrasse dentro di me e mi s’impigliasse nei polmoni. Sono come alveari dalle molte celle e in ognuna di esse ho intrappolato la fragranza di una delle persone della mia collezione. Se ne stanno lì ripiegate come minuscoli feti e forse l’odore della gente è la loro stessa anima, così i miei polmoni brulicano delle anime che ho preso in prestito. Non so se le restituirò mai, perché quando le sorprendo a bisbigliare dentro di me mi sento meno solo. Mi avvicino al letto della bambina, addossato alla parete su cui si apre una finestra e circondato da mensole cariche di pupazzi. Ho guardato a lungo questa vecchia casa, che conosco ormai come nessun altro. La piccola dorme su un fianco e dalla bocca socchiusa le esce uno sbuffo delicato ogni volta che espira. Devo reprimere una risata, mi è venuto in mente che assomiglia al suono di un palloncino quando lo si lascia sgonfiare lentamente e si riduce pian piano a una massa flaccida e quasi irriconoscibile. Adesso mi piego sulle ginocchia finché il mio viso e il suo non sono alla stessa altezza, poi apro la bocca e il suo respiro è dentro di me. Mi viene quasi da piangere e questo posso farlo in silenzio. Non so quanto tempo è passato quando mi rialzo e torno in un angolo della stanza, ma le ginocchia mi dolgono molto. Il mio cappotto nero e il mio cappello, i miei guanti, i miei pantaloni e le mie scarpe dello stesso colore si amalgamano alla tenebra, io sono l’oscurità, la notte che allunga i tentacoli in ogni casa del mondo, che tocca tutto, che raccoglie tutto in sé. Li fisso. Quello che non vedo lo immagino, m’imprimo nella mente i loro movimenti, anche i più piccoli e insignificanti, così potrò ripensarli a lungo, richiamarli alla memoria ogni volta che vorrò. Il loro sonno mi appartiene. Con le pupille che si dilatano li osservo talmente tanto che rischio di perforare la loro pelle, i loro muscoli e le loro ossa, come una goccia che cade ripetutamente, ancora e ancora, senza stancarsi mai. Che gioia immensa mi dà questo spettacolo irripetibile! Sono talmente immobile che finisco per non percepirmi più, mi dimentico di me stesso e vengo assorbito dalle loro cavità, sono liquido e poi gassoso, sono dappertutto e in nessun posto. Tic, tac, fa la sveglia sul comodino del padre, che ora russa proprio come faceva il mio, come fece anche la notte in cui vidi l’uomo ombra che mi guardava, e se ci penso lo rivedo proprio lì, nell’angolo opposto della stanza, come se fossi allo specchio e guardassi il mio riflesso. Io sono lui e lui è me, e forse una notte qualcuno mi vedrà attraverso il buio e ci risucchierà entrambi, diventerà noi ed entrerà nelle case senza suonare il campanello. Ma non oggi. Sento che il tempo è passato ed è arrivato il momento di andare via, così mi riavvicino ai letti e con la punta dell’indice destro tocco le labbra della bambina, della madre e del padre. Non se ne accorgono, nessuno se ne accorge mai. Esco dalla stanza e scendo le scale, indosso nuovamente le scarpe e mi guardo intorno per un istante. Già mi mancano, anche se i loro odori non possono più sfuggirmi. Tiro giù la maniglia ed esco fuori chiudendo lentamente la porta, che non esplode in un boato spaventoso come quando gli altri la sbattono mandandomi in frantumi. È come se mi salutasse cordialmente. Sono tutto intero, più intero di prima, e passeggio fino al lampione che mi aspetta sul marciapiede dall’altra parte della strada. Non sapranno mai di me, che sono entrato nella loro casa e ho toccato ogni cosa, che ho preso in prestito le loro anime e gli ho sfiorato la bocca. Non troveranno tracce e crederanno che la notte sia passata e finita per cedere il passo al giorno, come accade fin dalle origini. Però la notte tornerà e con essa il buio, che esisteva prima di tutto il resto. Tornerà il vento ad aprirmi la strada e tornerò anch’io. Mi scrollo le tenebre di dosso per camminare più leggero e adesso sì che posso ridere. Odo tutti quei piccoli feti che cercano di arrampicarsi su per la mia trachea e di scapparmi dalla bocca. Perché non volete farmi compagnia? Serro i denti e poi mastico l’aria, la mastico ininterrottamente per un po’, così, terrorizzate, le anime tornano a rannicchiarsi nelle loro celle. Sono belle le vecchie case. Proprio come gli uomini, le donne e i bambini che vi abitano e che credono di dormire soli, protetti da solidi muri di cemento come da una fortezza. Invece ci sono anch’io e ci sarò sempre. Nel buio.

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