Su “Corpo striato”, di Riccardo Frolloni

di Davide Castiglione

Le poesie di questo lavoro inedito di Riccardo Frolloni, Corpo striato, riescono nel difficile intento di attraversare una materia dolorosa – la morte del padre – senza ripiegarsi sul soggetto che soffre, sull’elaborazione privata del lutto; al contrario, Frolloni fa entrare nei versi tutta la quota di realtà – comunitaria, non soltanto individuale – in cui il padre agiva e da cui era agito: la sua presenza si dirama dal sogno premonitore del testo d’apertura (sogni I) alla cerimonia funebre coi familiari «mezzi scemi, rimbambiti dal piangere» (movimenti I); dalla vocazione poetica del figlio, come in movimenti II, dove il padre è giudice severo («quelle poesie sono terribili») di cui il figlio ammette la deità («non avevo dio prima del padre»), fino a episodi di cameratismo intergenerazionale (sogni II) in cui il padre «si unì a me / e ai ragazzi», distinguendosi per vitalismo e per incoscienza: «anche lui, buttando via i vestiti / corse urlando in pantaloncini sull’orlo del ruscello e si tuffò […] quasi si ruppe un femore».

Del padre deceduto non si lamenta quindi l’assenza, secondo la tradizione per lo più elegiaca dei canzonieri in morte; la morte consente anzi di vederlo e perciò di raffigurarlo vividamente nel ricordo come forse mai prima, di renderne viva la presenza nel qui e ora di chi rimane. La morte innesca, potremmo dire, un romanzo di formazione tramite l’accensione memoriale, rende più reale la vita senza, in apparenza, alterarla irrimediabilmente: «con un respiro / raccolsi tutta l’aria di casa, ed era ancora casa», leggiamo infatti nel bellissimo finale di movimenti I (sottolineatura mia). Non è un’attitudine maggioritaria, questa, perlomeno in Italia, dove il paradigma lirico della mancanza prevale nettamente su quello della presenza, e la barriera issata fra vivi e morti è netta («non avevi occhiali, non potevi vedermi», Montale, Xenia I; «eppure io ero con te / e tu non eri con me», De Angelis, Trovare la vena, in Tema dell’addio).

M. Grioli, Welcome, 2020

La non-accettazione della morte (o, più icasticamente, con Philip Larkin: «the costly aversion of the eyes away from death», Wants), ci ricorda lo storico Philippe Ariès in Western Attitudes Towards Death, è un fenomeno relativamente recente: è solo in epoca moderna, post-industriale, che la morte è divenuta ‘pericolosa’, configurandosi come uno strappo netto anziché come passaggio del tutto naturale: «l’antica attitudine in cui la morte era familiare e vicina, senza suscitare paura o soggezione, contrasta troppo fortemente con la nostra, in cui la morte è a tal punto spaventosa che non osiamo pronunciarne il nome» (1974: 13, trad. mia). Questa attitudine di Frolloni – attitudine che è, poi, il dietro le quinte della poetica, la poetica essendo nulla più che una sovrastruttura dell’attitudine – ricorda di più, per confessione stessa dell’autore, quella rinvenibile nel libro di Richard Harrison Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione, tradotto proprio da Frolloni per roundmidnight edizioni nel 2018. Bastino due versi, prelevati quasi a caso, per chiarire ciò che intendo: «anche papà avrebbe riso. Avevo tenuto le sue ceneri / perché niente di ciò che avevo pensato di fare con esse era giusto». Da tragedia personale, dunque, la morte viene riaddomesticata in commedia – dando a commedia, come fa Northrop Frye, il senso preciso di un riassorbimento di un epigolo nella comunità, contrariamente alla tragedia in cui la singola figura eroica se ne distacca senza più farvi rientro – come succede quando il lutto non viene rielaborato.

Dal punto di vista stilistico, la comunità dei vivi entro i quali il padre rientra, nonché la necessità di mantenere vivo un contatto con il padre, fanno propendere per uno stile poco individualizzato, per una possibile lingua comune più che un irriducibile idioletto: uno stile narrativo, frontale, con una riduzione drastica degli apparati retorici (di «narratività limpida» ha giustamente parlato Dimitri Milleri nella sua rassegna dell’ultimissima poesia italiana), come in molta poesia anglosassone, fra cui il già citato Harrison. Uno stile semplice, da scarto minimo dunque (per riprendere due fortunate formule – la prima da Enrico Testa, la seconda dall’omonima rivista fondata da Dal Bianco, Benedetti e Marchiori nel 1986); eppure a suo modo trascinante, esente da cali di tensione perché accorto nella gestione ritmica fintamente trasandata del verso e perché costruito su sviluppi diegetici e dianoetici peculiari a ogni testo, non saccheggiati da repertori già pronti e già stilizzati. Esemplifichiamo con il testo in incipit, sogni I:

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria
leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

 

Sul piano ritmico, si tratta di una poesia uniperiodale dal verso lungo, enunciativo, in equilibrio fra versi inarcati e versi debolmente rallentati (come i vv. 4, 6, 7, 12), con numero variabile di cesure interne, spesso marcate da virgole, a confinare moduli ritmici che vanno dal trisillabo («da uomo») al novenario («mi dicevo non svenire ora»), spalmati su una sintassi accumulativa e paratattica. Su piano ideazionale, cioè della rappresentazione semantica, la situazione è quella di un’escursione in montagna, la configurazione deittica è quella di un noi paucale e così composto: io+lui+altri, il tempo è l’imperfetto dei sogni, dunque un imperfetto non scopertamente elegiaco-nostalgico. Lo stesso imperfetto si innesta bene nell’oscillazione del grado di verosimiglianza del testo, fra concretezza di referenti naturali e umili (la «merda delle vacche») e smottamento in una prima soglia di irrealtà, con misurate deviazioni immaginifiche che non si fanno mai surreali, perché rimangono plausibili nel contesto d’appartenenza («gli altri scomparivano nelle nuvole» è motivato in un contesto montano); il grado di irrealtà aumenta poi fino a sfociare nel ‘frame’ del sogno, che incornicia il testo fra titolo ed explicit resta sveglio, svegliati»). Su un piano più interpretativo, in questa poesia come nelle altre della stessa serie dei sogni, molto sottile è la membrana fra episodio evocato e sua trasfigurazione simbolica: il passare «da altre parti» dell’io lirico contro l’ammonimento del padre può infatti essere letto come incapacità di seguire, debolezza, ribellione involontaria, o premonizione dell’allontanamento definitivo. Il padre si perde non per propria insufficienza, ma per insufficienza del figlio, che qui si presume ancora ragazzo e che non è quindi in grado di tenergli il passo.

Riccardo Frolloni

La morte è il perdersi di un contatto, tematizzato dalla situazione dell’escursione ma negato dalla stessa esistenza del testo, che vi si oppone offrendo del padre un ritratto luminoso e idealizzato («aveva il volto / sereno, da uomo»). L’atmosfera è comunque ariosa, purgatoriale, e – benché sottilmente perturbante, giusta i topoi del sonno e del sudore – è assai lontana dalle tinte cupe del lutto. Viene da pensare che la morte, quando è in seconda persona (come scrive Frolloni in una nota finale), assomiglia al sole: abbaglia troppo per poterla guardare direttamente, eppure i suoi effetti si palesano su tutte le superfici. Ecco allora che occorre approcciarla da diversi centri deittici: in movimenti I essa è prima allusa con pudore, per metonimia («l’ultimo sguardo»), e poi ripresa, filtrata attraverso pupille di semi-estranei in giardino («gente») nei suoi effetti non sul deceduto ma sul nucleo familiare mutilato («guardavano noi / rimbambiti dal piangere»); all’assolutezza della morte si arriva solo in chiusa, dove si realizza in un terremoto percettivo e fisiologico mediante la già citata iperbole («raccolsi tutta l’aria di casa»). Se la letteratura suggerisce il come guardare, la vita e l’esperienza offrono il cosa guardare, insomma.

 

La ridotta – ma non azzerata – letterarietà che ho esemplificato con il testo d’apertura è un’opzione che ho ritrovato recentemente anche in La linea Gustav (2019, Il Leggio Libreria Editrice) di Nino Iacovella, dove il recupero memoriale ha la stessa matrice autobiografica ma s’innesta su un’eredità storica (la resistenza partigiana) anziché su un lascito individuale. Come Iacovella, anche Frolloni riesce a dare l’illusione di un medium linguistico quasi trasparente, primitivo – un’assunzione di innocenza che viene poi caricata di nuovo significato nella prosa finale dove leggiamo che «l’innocenza è ignoranza». Non si ha mai un programmatico e antagonistico rifiuto degli istituti retorici, come in alcune scritture di ricerca, quanto piuttosto un loro smussamento, alla ricerca di una basilarità interpersonale e inerme. Il connubio di asprezza e dolcezza terrigna, e le ambientazioni rurali di molte poesie, fanno venire in mente i nomi di Pavese e Benedetti. Anche i titoli seriali dei componimenti – Materiali, Sogni, Movimenti – rimandano alla stessa indeterminazione, che per una volta appare davvero riflettere una perdita di individuazione piuttosto che una ricerca di effetti ermetici. D’altro canto, almeno i Movimenti rimandano sottilmente a una delle funzioni del corpo striato che titola l’opera, cioè quella di coordinare i movimenti. Ma striato rimanda anche allo stridore, al dolore: «un uomo malato è tutto corpo» recita una sentenza tanto semplice ma consonante con l’esperienza comune da sembrare scritta da sempre.

M. Grioli, Rosa dietro il cemento, 2020

La riduzione degli apparati retorici, la prevalenza di parole concrete, la narratività piana, la messa al bando di ogni espressivismo sembrano dunque puntare verso un nitore dove chi scrive si incarica di ricreare una comunione – familiare soprattutto, ma allargata a figure resistenti e sfortunate che permettono uno sguardo allargato a una comunità di paese – e quindi raccontare la tragedia senza dramma, come esposto già  più diffusamente nei paragrafi iniziali di questa recensione. Mi sembra indicativo che gli accorgimenti stilistici utilizzati siano i meno invasivi possibili, quelli che a rigor di logica dovremmo chiamare accorgimenti discorsivi piuttosto che stilistici –  se è vero che lo stile sta all’individuo come il discorso alla comunità. Per esempio, le duplicazioni dell’oggetto di pavesiana memoria («l’acquedotto ce lo siamo allacciati noi»), l’uso di espressioni colloquiali e quindi condivise («di santa ragione», «a una certa», «se dio vuole»), o quella sospensione lunghissima del discorso fra la domanda indiretta «chiesi / se lo [il libro di poesie] aveva letto, se gli era piaciuto» e la risposta franca del padre «rispose quelle poesie sono terribili» – in mezzo si frappongono ben diciotto versi, dove le parole del padre inizialmente in corsivato inondano quelle dell’io e vi si confondono, in un’osmosi che genera quello spazio condiviso di cui dicevo. Avessi conosciuto prima questa scrittura, l’avrei senz’altro inserita in quel filone di realismo empatico che ho tracciato in un saggio recente.

ancora Riccardo Frolloni

Sono da rammentare, infine, anche le poesie dedicate a persone terze che soffrono e che al tempo stesso offrono squarci della vita di paese, quasi leggende locali – Nilla, Franco, Massimo. Queste persone sono raccontate nei Materiali, e intendo questa parola non nel suo senso depersonalizzante, ma proprio in quello di ‘materiali da costruzione’, ovvero di materia per nutrire l’inventio, per allargare il proprio sguardo dimenticandosi di sé nell’attenzione verso l’altro. O forse, per dirla con Benedetti, come materiali di un’identità, identità che si dà come una somma di relazioni, talvolta anche casuali e difficili da controllare o assecondare, piuttosto che come una somma di enunciati auto-definitori o stilemi da voce innamorata di se stessa.

Vilnius 12/07/2020; 17/12/20

 

 

 

 

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(una selezione di testi si può trovare sul sito di Franca Mancinelli a questo link)

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