Omaggio di capodanno ai nostri lettori

Un omaggio ai lettori che vuol significare un auspicio per l’anno che si apre. Ve lo rende la redazione di Nuova Ciminiera con opere inedite dei propri componenti. Che sia un modo semplice e diretto di ribadire una prossimità.

 

 

 

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“Arriverà quel giorno”
di Luca Ariano

Arriverà quel giorno
– eccome se giungerà –
e nemmeno ti accorgerai,
come hai sempre fatto.
Troppo intento ai libri,
il profumo della carta:
Non sarà un Avvento
e dimenticherai il nome delle strade,
quegli angoli dove speravi,
programmavi, fantasticavi.
A chi regalerai storie?
Si affievoliranno come il ricordo
della sua voce, il suo sorriso
di grandi denti e mani venose.
Non avrai nessuno da far giocare
e la Vigilia una nebbia
che cela balconi addobbati
come nulla fosse,
di ultime code prima della fine.
Farete ancora l’amore lì
forse attendendo il suono delle campane
e la memoria si perderà
in quella chiesa di campagna:
fu dei primi cristiani della zona,
sepolti come martiri dalla Storia.

 

“a E. again”
di Michele Bordoni

E questa è dignità. Ma ci fa bene
fumarcela un po’ insieme, perché da soli
non si riesce a volte.

(F. Davoli)

Qui i sigari continuano a fumare.
L’anatomia tortile del tabacco
onora il limite, concede il giusto
tempo alle braci di esaurirsi e spegnersi.
Solo noi alla fine rimaniamo
a guardarci di là dalla cortina
del pomeriggio di un Natale astratto
finite le parole ma saldissimo
ancora il corpo in colonne di muscoli,
materia senza voce.
Si è forse giunti al termine
(è questa la nostra speranza apocrifa,
il nostro esanime sogno del congedo)
ma non è ancora del tutto consumato
l’ossigeno che penetra da fuori
anche se, dentro, la fornace d’aria
tende alla dismissione della carne.
E questa è sofferenza,
l’interminabile
riconferma dell’esserci, del sangue.
È tutto consumato ma continua
a reinventarsi il giorno, a riconoscersi.

Anche questo fa parte dell’umano.
Non fartene una colpa quando cala
la notte con le stelle a ripulire
la cenere.

 

“Un inedito”
di Jacopo Curi

Notte preistorica, superficie stagnante.
Un nodo si scioglie, il semaforo lampeggia
la terra completa un giro. Quanto pesa
adesso un pensiero, quanto fa rumore
un rumore improvviso.

Non sapevamo che avremmo dimenticato
che tutto sarebbe divenuto inaccessibile.
Almeno si può scegliere di non rimuovere
i contorni di una somiglianza, le frenate
del sangue: quando da piccoli giocavamo
a nascondino accucciati dietro un muretto,
quando c’eravamo nello stesso luogo
puntuali ogni mattina, quando dicevi
mai e per sempre ciò che non è stato.

Nessun ricordo sostiene la nitidezza
di una vista di tetti rossi, realmente rossi
di colline verdi, realmente verdi
ma c’è un più occulto vedere
di cui soli si è i testimoni:
l’aver visto, il voler vedere ancora.

 

“Rode il balcone un’orma di salino” di Filippo Davoli

Rode il balcone un’orma di salino,
urtica la ringhiera, sfa le pietre.
Guardando l’orizzonte facilmente
l’occhio si illude di vedere il mare.
Ed esso c’è, scialbato, all’orizzonte,
ma è un rigagno d’argento a fine quadro.
Qui la sua aria screzia le colline
invece, e scoppia e brivida in un’onda
di luce e di passione. Si ridesta
sui miei tetti il selvatico pomario
che squassa i coppi e ride alla ventura.
Mi associo al loro strappo, meraviglio
sornione in questo scampolo di vita.

 

“Ogni ricordo”
di Jonata Sabbioni

Ogni ricordo m’appare
riflesso d’iride o fatuo
gemito dietro il sipario.
Come il fulgore di là
dal vetro che precede
la crepa e poi subito
trascorre nell’ombra
fuggita sul muro. Così
raddoppio io e la vita
zampilla nell’ala sottile
della farfalla che posa
alla sponda dell’acqua.
L’insopprimibile di ciò
che sono e non so dire
immemora la parola
che lacera la pelle
quando lo specchio
frange e mi trafigge
nell’alba trasparente
di un bagliore altrove.

 

“Venerdì notte”
di Gabriel Del Sarto

Il piano breve eppure infinito
su cui è disteso il cadavere è una roccia
imperfetta, scolpita da uomini. Fondi di caffè, 
bucce e ghiaccio, le parti 
slegate di tutto sul piano in laminato. 
                                                                   Oggi nulla 
è più vero degli edifici enormi, dei parcheggi 
a più livelli. Alcuni sono perfetti, i più hanno angoli 
odorosi di urina, a volte auto polverose, quasi-nere Porsche 
Carrera, Alfa Romeo o vecchie Maserati. Meravigliosi 
quelli sotterranei, possibilmente 
sotto le stazioni, sotto abbandonate Banche d’Italia, in disfacimento. 

Ho letto molti elenchi delle cose che fondano il mondo.
Sono perfetti. Sono ciò che serve,
in questa lunga notte, se non desideri
trascendere il mondo così com’è.

 

“Il cuore ferito da un languore monotono”
di Vito Carlo Mancino

Poche parole profonde che superano le barriere della poesia tradizionale tramutandola in un’arma contro l’oppressione e la prevaricazione. Paul Verlaine le scrisse così “Les sanglots longs Des violons De l’automne, Blessent mon cœur D’une langueur Monotone” in quello che sembra essere il più conosciuto poema in lingua francese al mondo, “Chanson d’automne” pubblicato nel 1866 nella sua prima raccolta “Poèmes saturniens”, nella sezione “Paysages tristes”. Paesaggi tristi, appunto, resi percettivamente tali dal suo utilizzo di tecniche sonore da quell’idioma che rende ancor più deprimente l’idea di una stagione di decadimento. Si incupiscono i colori delle chiome degli alberi che perdono le foglie come l’invecchiamento del corpo umano toglie energia alla vita stessa. Il tono delle sue rime combinano malinconia e chiaroscuro caratterizzando Verlaine all’interno della corrente del Decadentismo, al pari di Charles Baudelaire e di altri giovani poeti “maledetti”. Una nuova generazione turbata dalla componente intellettuale della poesia sentimentale del periodo romantico e dai suoi luoghi comuni, diretta invece verso il primato della sensazione e dell’impressione, anche se incerta. Decadentismo fu lo sterile termine affibbiato a questa nuova corrente per rendere incompresi i suoi appartenenti, che invece mostrarono un’esplosione di vita, di rivolta letteraria, di contestazione e di rinnovamento, cosa che, come troppo spesso accade, segnò per sempre le loro carriere, le loro intuizioni e le loro vite. Ma la storia riserva anche delle sorprese; a meno di mezzo secolo di distanza la Francia era immersa in pieno paysage triste, con l’occupazione nazista che l’aveva fatta piombare in una decadente stagione autunnale senza fine e che le stava togliendo la sua tipica energia ed esuberanza. Di nuovo giovani “maledetti” avrebbero dovuto avere il compito di resistere, di rivoluzionare i luoghi ormai comuni della repressione poliziesca tedesca e collaborazionista. Nacque il movimento armato clandestino chiamato Maquis (da maquisards, macchia o boscaglia), con tutto quello che ne conseguì, delazioni, arresti, torture, deportazioni e fucilazioni. Di nuovo, nella Chanson d’automne i violini tornarono a singhiozzare ma, per quanto coraggiosi, il Maquis non avrebbe potuto sconfiggere da solo la terribile e potente armata della svastica. Il compito di combatterla sul campo sarebbe toccato agli eserciti alleati e per farlo sarebbero dovuti sbarcare in terra francese, cosa quasi impossibile a causa dell’enorme difesa tedesca sulla costa. Anche Paul Verlaine tornò a combattere, utilizzando i suoi versi. Quelle due strofe vennero recitate ai microfoni di Radio Londra il 5 giugno 1944 e contenevano il messaggio in codice con il quale gli Alleati avvisavano la Resistenza francese di dare inizio alle operazioni di sabotaggio contro i nazisti nell’imminenza dello sbarco in Normandia del giorno successivo. Il celebre film “The longest day” tratto dal best-seller di Cornelius Ryan ce ne dà la chiara visione, ma ancora poco conosciuto è l’utilizzo dei versi, della poesia, della letteratura che i resistenti francesi affiancarono alle pistole, ai fucili e alle bombe a mano contro un regime che i libri li bruciava e considerava degenerata quella forma d’arte che non gli sembrava convenzionale. Celebre rappresentante dell’esistenzialismo, attivo tra i combattenti del Maquis, fu uno scrittore francese che un giorno, sulla condizione dell’uomo e della libertà ebbe a dire: “L’Uomo è condannato ad essere libero; condannato perché non si è creato da sè e, pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa” (da: L’esistenzialismo è un umanismo). Jean-Paul Sartre scrisse questo pensiero negli anni dell’occupazione tedesca della Francia, sulla testata clandestina ‘Combat’, diretta da Albert Camus con lo stesso nome della cellula partigiana nella quale i due scrittori militarono insieme. Nel giornale, Sartre non si limitò a scrivere pensieri sui bui giorni della Francia sotto lo stivale nazista ma fu anche reporter d’eccezione che raccontò i giorni della resistenza fino alla liberazione, circolando con la sua bicicletta tra le strade di Parigi. Sartre va oltre la testimonianza diretta e riflette sulla psicologia delle due figure simbolo del regime che combatteva – il collaborazionista e l’antisemita – il loro modo di porsi nei confronti della realtà, la loro scelta di adesione a una perversa fascinazione per il male e il loro sottrarsi alla responsabilità di essere, prima di tutto, umani. A tal proposito scriverà che “il razzista odia gli altri perché odia sé stesso” e che “il collaborazionista rappresenta la malafede che cerca scuse per negare la libertà profonda e assoluta che ogni scelta invece realizza, vestendo la contingenza con gli abiti della necessità, rinunciando a progettarsi, rischiando e trascendendo l’immediatezza, scegliendo la viltà pur chiamandola ‘senso del dovere’”, riferendosi a ciò attorno a cui il Maresciallo Pétain cercò di costruire il consenso allo ‘Stato di Vichy’. Sartre fu sempre convinto che la guerra divise in due la sua vita e nel 1945 spiegò perché, pur mutando spesso il suo pensiero, era profondamente convinto che l’essere umano trovasse la sua massima realizzazione nell’impegno sociale e politico verso il miglioramento della propria e dell’altrui condizione. In questo contesto si delinea il parallelo tra la sua figura e quella di Verlaine, sia dal punto di vista intellettuale, entrambe influenti, amate e criticate, sia da quello comportamentale e fisico, l’accentuata inquietudine e le condizioni fisiche precarie. Le idee di Sartre furono sempre ispirate a un pensiero politico orientato verso la sinistra internazionale pur spesso criticandone la politica, anche duramente, in diversi suoi scritti. Sposò la causa della rivoluzione marxista, senza per questo concedere i suoi favori al partito comunista sovietico che non ne soddisfaceva l’esigenza di libertà. Camus, suo compagno del Maquis, ebbe con Sartre una significativa rottura per le diverse visioni sul marxismo ma da scrittore, intellettuale  e ‘uomo libero’, che aveva combattuto e sconfitto la prevaricazione nazista usando la penna e il fucile, non avrebbe mai potuto sottostare a visioni ideologiche perentorie. L’impegno civile di Camus, infatti rimase costante e così il suo essere indipendente allo stato puro, non piegandosi di fronte a nessuna ideologia e criticando allo stesso tempo tutto quello che poteva allontanare l’uomo dalla sua dignità. Fu con George Orwell, Emmanuel Mounier, Lewis Mumford e André Philip al primo Congresso internazionale del Movimento Federalista Europeo, fondato da Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann con l’obiettivo di costruire gli Stati Uniti d’Europa. Proseguì ancora, ribellandosi all’intervento francese in Algeria, condannando apertamente con parole dure i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki (unico intellettuale fatta eccezione di Albert Einstein), lasciando l’UNESCO a seguito dell’entrata nell’ONU della Spagna franchista e criticando apertamente la brutalità del governo della Repubblica Democratica Tedesca nella repressione degli scioperi a Berlino Est. Ancora una volta, Camus e Sartre sembrano quasi essere contemporanei a Verlaine, condividendone passioni letterarie, ideali, personalità e anche malattie. Ebbene, il Verlaine di ‘Romances sans paroles’ e di ‘Dans les limbes’, il Sartre di ‘La Nausea’ e di ‘A porte chiuse’ o il Camus di ‘La Peste’ e di ‘Il mito di Sisifo’ ci lasciano l’insegnamento che non vi è certezza se non la coscienza di ognuno, la libertà di vedere le cose a modo proprio senza costrizioni di sorta e che non si può eliminare l’intellighenzia con pochi grammi di piombo sparati a bruciapelo – Hitler lo subì a proprie spese – perché quando una penna scrive, gli occhi leggono, la mente si apre e i pensieri volano via eterni … “Et je m’en vais, Au vent mauvais Qui m’emporte, Deçà, delà, Pareil à la Feuille morte”.

 

“Un pensiero”
di Fania Petrocchi

Alle menzogne non c’è rimedio. Neanche alla calunnia. Eppure basterebbe ricordarsi, ogni volta che si vuole parlare, che Dio ha creato il mondo con la Parola.

 

“Certe volte mi scopro a ricordare” di Nicola Bultrini

Certe volte mi scopro a ricordare
il sapore di cose dell’infanzia
le liquerizie del paese in festa
i ghiaccioli sintetici d’estate.
Lavora la memoria del gusto
nella testa, sotto la lingua
uno strappo alla regola del tempo.
Dovete ammetterlo, solo
per il Natale è l’aroma
formidabile dei mandarini.

 

“L’amore è una cosa semplice”
di Marco Grioli
L’amore è una cosa semplice, 2020

 

“Fine anno”
di Davide Tartaglia

Solca l’asfalto una luce esasusta
la semina una madre
che aspetta ad un incrocio
dentro un cappotto perla.
È certamente esistita ed esiste ancora
scolpita da secoli in un’aria di pioggia
a quell’incrocio della storia
che attraverso anche io.
Da un altro luogo mi chiama
senza saperlo senza bisogno di dire niente
solo tiene un passeggino stretto nella mano
a stento un ombrello e una pena
senza sconti.
La incrocio come madonna tra le vigne
lei non lo sa mentre piange
che è seme spremuto sulla terra
perché porti molto frutto
lei non lo sa mentre schiva le auto
nella selva dei clacson
che al ritmo esatto del suo passo
pronuncia il mio nome
tutti i nomi del mondo
e al suo appello tutto si sveglia
ogni cosa ritrova il coraggio
di dire io.

 

“L’Incredibile Gianni Nuvola” di Ludovico Peroni

Era il 31 Dicembre del 2020 e dalla finestra della sua camera scorgeva la punta l’albero di Natale del suo paesino. Negli anni se ne ricordava di tutti i tipi: dai più creativi ai più arrabattati. Ne ricordava qualcuno veramente kitsch, e altri orribili! Qualcuno meraviglioso, anche se con fatto con poco. Ora che ci pensava meglio…erano proprio quelli fatti con poco a essere i più belli!
L’Incredibile Gianni Nuvola pensava curiosa una tale differenza di esiti a partire dal lavoro di gruppo delle stesse persone: forse dipendeva tutto dall’iniziativa presa dai singoli, dai materiali reperiti o donati, dal tempo – concesso dalla vita di ognuno – messo a disposizione della collettività. In tutti quegli anni non aveva dato per scontato quel pezzettino d’albero che poteva vivere dalla propria finestra. E così, come per l’albero, Gianni sapeva che gli anni subivano la stessa sorte: qualcuno era fatto con poco e bene, qualche altro con troppo e male. A volte fatti dai gesti delle persone e, altre volte, semplicemente da accadimenti fortuiti. Belli, mediocri e terribili. A Gianni, per questo motivo, non sembrava giusto festeggiare tutti gli anni e, soprattutto, festeggiarli alla stessa maniera. Alcuni richiedono gioia, altri baccano. Qualcuno richiede rispetto, contemplazione. Altri semplicemente comprensione.
La morale non cambia: in quest’anno disgraziato l’Incredibile Gianni Nuvola si sentiva fortunato di aver goduto di un altro pezzettino di tempo da vivere, anche se solo dalla sua finestra. Come per l’albero del paesello.
Quindi fece la sua scelta di rispettare l’uscita di scena di questo 2020.
A volte è semplicemente bello festeggiare la vita col dono del silenzio.

 

“La borsa”
di Francesco Cangioli

L’Arbre Magique è coperto da una patina di polvere e oscilla come un impiccato. La pioggia tamburella sul parabrezza e scioglie la luce dei lampioni in chiazze traslucide.

Mi volto verso il sedile del passeggero e deglutisco. La lama del taglierino è conficcata fino al manico nella carcassa della borsa da lavoro. La estraggo: nessuna traccia di sangue. Non meritava altra fine se non questa, la puttana. Mi viene da ridere. Da morta ha un aspetto così ordinario, eppure… Si fottano tutti quelli che mi hanno creduto pazzo! Il tentacolo della tracolla penzola flaccido e un brivido mi risale la schiena. Quante volte mi ha stretto la spalla cercando di disarticolarla? Non succederà più.

Lo specchietto retrovisore mi restituisce un sorriso lupesco. Sobbalzo. È solo la mia faccia.

Perché non ho pensato prima a usare un taglierino? Lanciarla dal balcone, prenderla a pugni, annegarla… Tutti tentativi inutili. Comunque, ormai chissenefrega.

Riuscirò  mai a dimenticare i suoi bisbigli nelle tenebre? Sono vuota, piagnucolava, così mi schiacciavo la testa col cuscino, ma lei continuava a gemere. Mi costringeva ad alzarmi e a riempirla di libri, fascicoli, quaderni, qualsiasi cosa. Le fibbie delle chiusure sferragliavano sul pavimento. Mi hai riempita di merda! Il mio letto ha ingoiato più lacrime del Muro del Pianto. Soprattutto quando la borsa mugolava quella nenia raggelante. Sono sicuro che mi maledicesse per tormentarmi il sonno.

Eccola lì, ridotta al silenzio, un banale accessorio capace solo di emanare questo olezzo di pelle vecchia e… di terrore? Chissà se ha avuto paura quando ho tirato fuori il trincetto e gliel’ho puntato contro. È stata zitta, uno sbuffo appena prima di morire. Avrà sofferto? Vada al diavolo, non è affar mio. Devo dirlo a qualcuno, non posso tenere tutta per me una roba così grossa.

Apro la rubrica e scorro, scorro, scorro. Non ricordo le facce di metà dei miei contatti e non sento l’altra metà da mesi. Svitato del cazzo, mi hanno detto. Vadano al diavolo anche loro.

Butto il telefono sui sedili posteriori e chiudo gli occhi. Questo silenzio mi trapana il cervello, mi fa venire da piangere. Inspiro, ma l’aria non entra nei polmoni. Tu-tum, tu-tum, tu-tum. Il cuore mi sta spezzando le costole. Mi mordo un labbro e il sapore ferroso del sangue mi riempie la bocca.

Perché non parli? Ti è bastato uno stupido trincetto per morire? Per abbandonarmi a questo silenzio schifoso? Ormai muoio anch’io, lo sento che muoio, e sono solo.

Sei proprio un coglione, biascica la borsa, te l’ho fatta.

“Cose che non so”
di Lorenzo Sbarbati

 

 

“A un seme, nascosto nel bavero dell’inverno” di Francesco Roero (Occhetto)

Eri azoto, polvere, ossigeno d’astri
meteora di sole nell’oscura incubazione
della galassia
                         e ora
sei nascosto sotto la crosta dura
della terra di neve, di fieni capovolti,
di radici all’aria.

Eri greve soltanto di impercettibili fiati
nello spazio aperto del ventre di Dio
e ora quasi intravedi
sotto un cumulo di ghiaccio
rigogli d’erba a stagione inoltrata
sfamare le volpi notturne, i forapaglie
becchettanti le rosse bacche dell’inverno.
Eri l’ingegno del caos quando impasta
                                atomi, zolle, lacrime d’ambra
e ora sei corazzata ghianda
nella teca dei cristalli sotterranei. 

Spingi, scuoti, sgretoli la scorza del silenzio
appena puoi, nell’ora delle sferzate di marzo
che ormai si intravede qualche primula
srotolare un salmo di sere chiare.  

Solstizio della gioia, annuncio elettrico
di tutta la terra respirante sotto l’adatto torpore
dei giorni rinsecchiti, seme che ti imbecca
appena colto dalla cesta e subito gettato
la nera cornacchia,
                    rincorri felicità remote
scendi fino alle sedimentazioni
d’uomini, vermi, argille, sepolti destini
fino ai corsi d’acqua,
alle invisibili arterie del mondo. 

Sei qui – liberato dalla mente fantasiosa
di un ostinato Spirito creatore
nascosto dove mai penseremmo
tra i disegni della brina
sotto bocche di trifogli, strisce
di lumache passeggere, bave gialle
di opalescenti scarabei.
Fragile entità dell’oltre spazio
tu emerso da un nonnulla d’autunno
catena di risvegli da una tersa tenebra.

Dormi ancora
                          piccolo seme
nascosto nel bavero dell’inverno
ché la stagione riposa
fino all’ascesa dei frumenti
al ronzio d’api sulle clematidi viola.
Dormi fin che vuoi, fin che puoi
in questo sonno di vita che cresce pian piano
nella cruna verticale del prato.

Eri luce, linfa, materia immaginale
pronta a sbocciare dal sonno eterno dell’increato
e ora, generato, mi mostri il volto che avevo
prima di essere nato. 

Forse è per questo che mi piaci così tanto,
piccolo canto dell’universo.
Tu non hai paura di venire dal niente.
Di essere niente in questa tua
continua trasformazione
di vuoto in terra, foglia in tronco, legno in fuoco
e ancora fuoco in vuoto e così per sempre.
Non tremi tu di questo niente
che sale al cielo e torna in pugno
                                           alla Grande Mano
dopo lunghe dormienze negli ovari del bosco.
Non ci pensi, non sai fino a quando sosterai
nell’embrione dell’attesa
per seminare nascita e
                                 sicura scomparsa. 

Tua sola premura è soddisfare
la promessa del frutto
o minuscolo operaio regale. 

Improvvisamente nasciamo
anche noi, gettati alla terra per chissà
quale fioritura. Eppure tanto più pesante
e improduttivo è questo nostro stare
rispetto al tuo, chicco d’oro
che erompi lieve dal cemento
e crei un firmamento di polline.  

Piccolo seme. Maestro mio.
Dammi un po’ della tua forza.
Dammi gli occhi di quando nascevo
quel sì incondizionato alla luce
che il nato dice sottovoce
prima di uscire allo scoperto
nell’attimo pieno della gestazione
ignaro ancora
                         come in un soffio
sarà già tempo di mutare corteccia,
accomiatarsi verso un’altra
                                                        primavera. 

 

 

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