Una nota per “ARCHIVIO DEL PADRE” di Giancarlo Sissa

 

di Luca Mozzachiodi

Siamo, con questo, al terzo libro di prose poetiche dell’autore mantovano, dopo Il bambino perfetto del 2008 e Persona minore del 2015; si conferma dunque ormai non una deviazione casuale da un percorso fatto di versi pure musicalissimi e ostinatamente fedeli alla rima, ma una precisa scelta di natura stilistica e di ripartizione della materia. Al tavolo della prosa, come suggerisce già uno sguardo ai titoli dei libri, Sissa si siede infatti soprattutto per costruire un proprio personale romanzo o diario di formazione che spesso riconosce per appunti ciò che articolato in versi perderebbe di vividezza.

Anche questo libro ha l’aspetto di un diario, con tanto di annotazione in ordine cronologico dei giorni che sostituisce il titolo delle prose, ma già la scelta del titolo Archivio denota una diversa volontà di scendere a patti con il passato come unico modo di preservarlo e salvaguardarlo. Protagonista e grande assente del libro è infatti qui il padre dell’autore, evocato all’inizio del libro in una sorta di prefazione con l’appellativo, che gli era proprio già negli altri libri precedenti, di «l’operaio» e qui colto soprattutto negli atti paterni e di cura: «che mi ha insegnato a leggere e a disegnare. A cercare anima ovunque. A mani aperte». Tutto l’archivio è insieme il racconto di un faticoso e imperfettamente compiuto distacco e del decorso della malattia che l’ha spento; l’ultima sezione l’ordine cronologico della perfetta guarigione drammatizzando apertamente il rapporto tra i vivi e i morti apre alla versione moderna e domestica di una simbologia ctonia e orfica, di un rito di resurrezione che si può, come suggerisce la conclusiva nota di poetica non richiesta, pur così piena di giusto disprezzo della poesia come abito mondano, compiere solo nella poesia. «I vivi. I vivi. Quelli che restano. Così certi. Convinti. Immortali. Non hanno soggezione.  Di questa. Pallina gialla di gomma. Rotolata dall’aldilà. Lanciata dal gioco. Delle mani. Dei più antichi bambini?».

Due sono essenzialmente le strategie difensive e narrative scelte (in un modo che sicuramente mescola controllo consapevole e moto inconscio) dall’autore per compilare e ordinare questo archivio: la prima è certamente di tipo regressivo, la costante rappresentazione di sé con i tratti e le abitudini dell’infanzia, tipica anche di altri libri di Sissa e qui favorita dal taglio memoriale, vediamo alcuni passaggi: «Padre caro, madre mia era bellissimo quel revolver da cow boy di Santa Lucia che non serviva per uccidere o ferire ma per giocare nel cortile di via Conciliazione», «Padre il cortile degli anni Sessanta. Palestra scrostata geografia dei giochi col tappo.», «Ti sposti. In Silenzio. Ti nascondi. In una siepe a leggere. Un vecchio numero. Di Topolino». Accanto all’infanzia anche la dimensione naturale rappresenta una riserva di senso e di bontà che al mondo compiutamente umanizzato manca: «Il basilico vuole molta terra. Acqua. Luce. Cura e come il rosmarino un muro. Caldo e semplice navigato. Da giovani lucertole. Dai gesti antichi e silenziosi. Delle piante. Linea madre ben tracciata sul palmo della mano. Gesto serio della gioia», «l’aria muove la luce verde della pianura verso il grande fiume. Ogni argine è un sogno senza spiegazioni. Ogni confine un’isola fertile  di ali bianche e destini», al punto che, come risposta al dolore non solo della perdita ma dell’intera esistenza, è evidente anche un desiderio di deumanizzazione, di reificazione: «Viene il giorno che finalmente non contiamo più nulla e siamo pezzi di sole presi in una pietra».

Giancarlo Sissa,
foto di Daniele Ferroni

La seconda strategia, quella attiva se così si può dire, consiste nella ripetizione di un vero e proprio rituale sciamanico che percorre e struttura, sia pure sottotraccia, tutto il libro e dal quale dipendono la simbologia ctonia, il fiume con le opposte rive e la barca che appare in moltissime pagine, (e sono naturalmente anche immagine del Po e della campagna mantovana ma non solo quello) e soprattutto la frequente identificazione dello sguardo tra padre e figlio in prose, come flash improvvisi, nelle quali sembra di poter vedere la vista oltremondana del defunto: «il dolore intermittente al polmone sinistro è Giancarlo che mi dice nessuno pregò. Nelle albe degli orfani per le celesti biciclette dalle ruote sgonfie», «Mio padre parla con i fantasmi. Gli vanno vicino nel letto. E sono madre. E sono fratello. E anche io sono un pezzo del loro nome». Allora il poeta-sciamano può affrontare il viaggio oltremondano che mediante l’identificazione con il morto e l’animale guida ( qui i lupi di cui si dice che sono «gli antenati fedeli della vita») può riportarlo brevemente in vita e riportarne frammenti di pensiero e sensazioni: non a caso il frammento in questo senso più esplicito si intitola L’ordine della perfetta guarigione: «Poi sono morto e sto. Come culla di bene nel centro. Periferico del male. Proprietà spoglia dell’ascolto. Il granello che inceppa. L’arma. Il refolo di vento. Caduto dalla tempesta.// Io sono morto alcune volte. E di qualcuna di quelle. morti mi vergogno. Di altre sono. Fiero. La volontà. Della poesia è cieca. Esiste come può. Nel tuono silenzioso. Dei fiori di girasole. Chi non lo sa appartiene. A un sistema di potere che combatto. Solo che. Chi. Chisse. Se ne frega.//Allora resto nel bene. Della lotta pronto. Alla sconfitta. Arreso. Morto. Invincibile».

Ora dunque ci si potrebbe chiedere, bene ma in fondo non siamo di fronte alla solita vecchia storia? Non è forse questo poeta-sciamano un’Enea disceso agli Inferi per incontrare il Padre Anchise? Abbiamo ancora bisogno dopo le sedute spiritiche di Victor Hugo a Guernesey per parlare con la figlia morta e riversate in un profluvio di versi e poemi sull’aldilà, dopo i Sonetti a Orfeo di Rilke e dopo tanti colloqui con morti e tanto dissimulato spiritismo in tutti i libri di Montale, di un libro come questo e di pagine forse meno grandi di quelle? Tanto più che sciamanesimo, medianismo, spiritismo sono da tanto tempo, e probabilmente giustamente, relegati nella paccottiglia del misticismo fumoso e cialtronesco ormai da molti (resistono arroccati squadroni di angeli a protezione delle passeggiate di questa o quella madonna che impunemente ama passeggiare per il Duemila, ma, io credo, se non periranno di buon senso e di antiidolatria, periranno una buona volta di capitalismo) e che, come bisogna ricordare, muoiono i padri di tutti e non solo i padri dei poeti?

Certamente. Tutto incontestabilmente vero e infatti, io credo, Sissa sembra aver capito quasi da subito una verità tanto importante quanto difficile da far comprendere: si può anche parlare dei propri casi privati o privatissimi in poesia ma parlarne, magari con belle immagini o anche con versi ben fatti (chiaramente non è questo il caso, trattandosi di prosa e per di più franta e spezzettata in palese violazione della comune sintassi a rendere ancora di più il linguaggio balbettante e interrotto della comunicazione sciamanica), non è sufficiente se questo non dispone un discorso capace di andare oltre gli affetti privati e investire l’intera sfera della collettività, della civiltà e del senso, in poche parole se non è in grado di riguardarci in qualche modo.

Da Archivio del padre come dagli altri lavori di questo autore apprendiamo, ad esempio, che la vita umana è fatta di sofferenza, senza tanti giri di parole, e sono già pronti gli psicologi, i sociologi, i biografi previsti e tanto cari a chi cerca un ansa di rifugio, a spiegare che ciò dipende invece chiaramente dalla grandezza della macchina di Sissa (che dice «non ho mai imparato a guidare») o della sua casa, o dal suo lavoro o da uno dei vari possibili traumi infantili inventabili su queste pagine e, dunque, che tutti i possessori di grandi macchine e grandi case etc. possono stare tranquilli e trionfare nella loro salute poiché il mondo appartiene loro. Noi però impariamo anche che invece la civiltà e la formazione constano anche di un processo di violenza e amputazione della personalità, di distruzione del non conforme e del non produttivo: «Io e mia sorella siamo rimasti di qua. Dove ci sono il vino e i sogni. E i bambini// Per questo ci odiano. Sono gli stessi che hanno. Ammazzato la neve e Salgari», «Adesso. In due notti. Scrivo un libro. Dove dico. Dove. Dico. Il poco che siete. Anche visti da qui. Attraverso i muri. Del manicomio.». Già quando ci viene chiesto, da bambini, “cosa vuoi fare da grande?” comincia a essere instillata l’idea che “essere grandi” sia soprattutto “fare qualcosa”, comincia la riduzione della personalità dell’individuo alla funzione sociale e produttiva che viene data, ormai inconsciamente, come sola forma di sviluppo possibile. Chi ha un po’ di memoria ricorderà che il terrore della soppressione dell’individuo e la sua sostituzione con la funzione era il terrore classico agitato dai benpensanti di destra quando si parlava di socialismo, come se fosse una personale invenzione di qualche ideologo russo quando invece si tratta di qualcosa che avviene pressoché da sempre, sistematicamente (e più ferocemente quanto più da questa riduzione dipende il sostentamento) senza che nessuno si scandalizzi; Adorno ha scritto pagine memorabili su questo aspetto sia nei suoi scritti filosofici che in quelli più strettamente sociologici. Al sistema di spersonalizzazione e sfruttamento, che non favorisce la crescita ma anzi la inibisce e amputa, quando ci pone simili tendenziose domande sorridendo con il viso di uno zio, un cugino, un conoscente la sola risposta giusta sarebbe aprire il fuoco contro il nemico ma, perché questo possa essere fatto, l’Internazionale dei bambini non è stata ancora scritta e il passo da “figli della patria” a “dannati della terra” è maledettamente breve.

Archivio del padre,
MC Edizioni (2020)

Dico dei bambini, non dei “piccoli adulti” che immaginiamo, che vogliamo e che produciamo in serie, i bambini di cui un signore discreto a cui si suole imputare sempre tutto una volta ha detto che «chi non sa farsi piccolo come loro non entrerà nel regno dei cieli», parole che di solito vengono interpretate come esortazione all’umiltà e all’ingenuità, (ma chi ha incontrato un bambino vero sa che non sanno cosa sia l’umiltà e sono tutt’altro che ingenui) e spesso finiscono in una sola richiesta: l’obbedienza senza tante discussioni alla norma, alla tradizione, alle istituzioni, al dogma, al potere, insomma “ai grandi”. I veri bambini sono probabilmente estinti o ancora futuri, non a caso Sissa li rappresenta come tutti «di là», «antichi», «morti» appartenenti a una dimensione altra dalla nostra: si ricordi il grido di Lu Xun ai rivoluzionari cinesi impegnati nella guerra civile «salvate i bambini!», voleva dire molto di più, dato che non basta nascere per esserlo.

Al posto dei bambini abbiamo tantissimi adulti (talora di pochissimi anni) imperfettamente cresciuti proprio per non essere stati (non aver potuto essere) bambini e allevati per riprodurre l’esistente. Questa umanità di cui senz’altro facciamo parte, accusa il trauma e porta le cicatrici o gli organi vestigiali dall’operazione di chirurgia che la civiltà ha compiuto e compie su di lei: non si contano non dico le migliaia, ma i miliardi di uomini e di donne che la espongono (solitamente quando non producono) così: Padre onnipotente, Padre nostro o altri equivalenti culturali, che manifestamente ricordano il modo in cui il bambino molto piccolo vede il genitore.

È stato il teologo e pastore Bonhoeffer (e dunque non esattamente un mangiapreti) a parlare per il «mondo adulto», che è da realizzare, di un cristianesimo a-religioso, svincolato cioè dagli elementi che non sono l’annuncio delle fede ma costituiscono semplicemente forme storiche in cui il cristianesimo si è imposto; lo si può anche vedere come un cristianesimo in cui si cessa di attendere premi, soccorsi e punizioni, di fare la conta delle colpe e si testimonia invece la vita interrogandola e agendo.

Nell’attesa di essere, o non essere, consolati, attesa che anche dalle pagine di Sissa traspare con personali rivisitazioni delle formule canoniche, («Mio padre notte luce. Padre. Luce Padre. Padre dei perdenti. Che guarisce e fa passare il mal di denti», «Che Dio vi benedica. Dio. Ci benedica.») la risposta più plausibile alla domanda di zio capitale potrebbe essere “diventare me stesso”, che è poi l’unico vero significato della crescita e un raggiungimento non scontato, ma in mancanza di bambini con la risposta pronta siano cento volte benedetti quelli che rispondo “il cow boy”, “l’astronauta”, “il pirata”!; in questa ingenua negazione delle norme della civiltà sta una forma di resistenza alla barbarie della civiltà stessa, l’espressione forse di chi non sa cosa si vuol fare di lui ma soprattutto vuole essere solo e libero nel disporre di sé. I bambini che rispondo così resistono molto meglio di noi che “da grandi” vogliamo fare i professori di marxismo.

Allora ecco che possiamo riprendere senza scetticismo lo sciamanesimo, lo spiritismo e la pirateria; non dunque per la verità o realizzabilità di quei fatti, ma per quello che intimamente significano: un atto di rivolta contro un mondo ingiusto, la protesta contro questa civiltà come unica possibile. Ecco che riletto così questo libro siamo ben oltre la privata elegia funebre: il padre-operaio che insegna «a leggere e a disegnare» è anche un benevolo protettore e civilizzatore di un mondo della ricerca e dell’espressione, che insegna ciò che a questo mondo della produzione è superfluo e tanto più essenziale, suoi alleati ed emissari sono i lupi «antenati fedeli della vita» e simbolo della negazione di questa civiltà, suoi segni e manifestazioni  sono gli scoppi di gioia e  di dolore, le manifestazioni di vitalità e rivolta: «Padre caro nel punto preciso. Della tua morte scintillano la scimitarra di Sandokan. Il kriss di Tremalnaik i bambini. Liberi fuori da scuola».

Si tratta di una forma, onesta e insieme disperata, di resistenza, perché parla di una parte di noi che il tempo ha rimosso e tutte le barricate che si erigono non contro gli uomini ma contro il tempo hanno il difetto di venire espugnate. Sissa conosce molto bene queste cose, forse dovrei dire i Sissa, tutti e tre, padre, figlio e figlia (dai cui diari sono tratte alcune prose e ricordi che fanno parte del libro) e se si guarda alle date di nascita e morte di Gianfranco (1940-2018) ci si accorge immediatamente come questo libro sia anche il dialogo di due secoli tra loro, il Novecento e il Duemila, scritto da un poeta nato nel 1961 e che, come moltissimi non necessariamente suoi coetani, per una molteplicità di ragioni si è trovato preso nel mezzo, estraneo ad entrambi: in comprensibile disagio di fronte alle forme della contemporaneità ma anche lontano dal mondo del passato. Al passato appartengono i padri che anche se, come il padre raccontato in questo archivio, non hanno paura di niente, sono tutt’altro che onnipotenti, anzi, spesso possono solo morire. È da questa impotenza che nascono gli archivi.

 

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