Due chiacchiere con Nicola Romano

di Francesco Trasatti

“Ciminiera” vuole rappresentare, e non ci stancheremo mai di dirlo, un crocevia di esperienze e punti di vista diversi, un’occasione d’incontro, di scambio, di contatto, di discussione. Ci interessa l’arte del comunicare, in ogni sua dimensione, poetica, letteraria, musicale o, come nel tuo caso, cinematografica e teatrale. Proprio gli incontri o i contatti, a volte fortunati, altre volte voluti e magari anche meritati, spesso cambiano la vita; è quello che è successo a te: l’inizio della tua carriera assomiglia quasi ad una favola…

Beh, in effetti, quando a vent’anni mi sono trasferito a Roma da Pescara, mia città natale, non potevo proprio immaginare quello che poi sarebbe capitato; anche se non è stato tutto “rose e fiori” e le soddisfazioni che ho avuto me le sono comunque guadagnate sul campo. Dopo due mesi che frequentavo una scuola di recitazione nella capitale venni a sapere casualmente che Gigi Proietti teneva gli ultimi provini per selezionare gli allievi per il suo laboratorio teatrale; affrontai quindi la selezione, anzi le selezioni, perché ne erano più di una, e le superai tra centinaia e centinaia di aspiranti. Nella mia vita due sole volte ho provato la sensazione di camminare un metro da terra: quando ho preso la maturità classica e quando ho passato il provino definitivo per la scuola di Gigi! Eh, eh! A quel punto lavorai sodo con lui per circa due anni; il corso era abbastanza faticoso, sei ore ogni giorno compreso il sabato, e non c’erano telecamere che ti riprendevano, come avviene oggi. Si andava esclusivamente per lavorare e non certo per essere visti da qualcuno. Mi misurai anche con materie per me nuove allora come la danza, il canto, o la storia della musica. Penso che Proietti abbia un’intuizione e una genialità come poche persone, e mi riferisco al suo modo d’insegnare, al di là dello straordinario carisma d’attore che tutti conosciamo. Esaltava le parti migliori di chiunque avesse davanti, indipendentemente dalle sue caratteristiche fisiche o psicologiche. In realtà fui fortunato anche precedentemente a questa esperienza professionale; quando vivevo ancora in Abruzzo ebbi l’occasione di un meraviglioso incontro con un regista che aveva preferito fare teatro in provincia, in una dimensione più raccolta e intima, piuttosto che trasferirsi a Roma per lavorare, come pure avrebbe potuto fare in diverse occasioni. Feci un laboratorio con lui, stando praticamente zitto per un anno intero a tutte le lezioni. Alla fine del corso mi diede il ruolo del protagonista nel saggio conclusivo, con grande sconcerto da parte di tutti gli altri ragazzi; evidentemente aveva capito che ero lì perché avevo voglia di comunicare qualcosa ma ancora non ero riuscito a farlo. Se ci ripenso è stato proprio un bell’incontro, di quelli che ti formano, che ti danno le basi. Mi ha aiutato tantissimo a conoscermi meglio e a farmi conoscere dagli altri.

Da queste importanti attività professionali sono trascorsi ormai diversi anni; ora sei perfino passato dall’altra parte della cattedra, coordinando dei laboratori di recitazione a Roma. Come insegnante su cosa ti soffermi maggiormente quando ti trovi a dover dare dei consigli a giovani attori?

Il rapporto col testo è fondamentale, secondo me non esistono scorciatoie; bisogna fare proprio quello che si legge, in un rapporto simbiotico con la parola. La strada giusta è partire da lì, e non aspettare una qualsiasi magia per entrare in un ruolo. Poi anche il talento gioca la sua parte; quante volte mi sono sentito domandare: “ma come devo fare per fare questo… per esprimere quest’altro?”. Se fai domande del genere probabilmente hai scelto di voler fare un mestiere che non ti appartiene, perché altrimenti ti butteresti con passione e non staresti ad aspettare le parole di un insegnante. Io sono contrario a questo fiorire di Metodi; viziano l’attore, gli dicono quello che deve fare, mentre secondo me il personaggio, il ruolo da interpretare, devi trovarlo in te, a tuo rischio e pericolo. Inoltre adesso c’è un’attrazione smisurata da parte dei giovani per questi reality-show che continuamente ci vengono propinati in televisione. Forse anch’io alla vostra età lo sarei stato, chissà… Ma con questa centralità della telecamera, tutto diventa uno spettacolo di te stesso, finalizzato ad arrivare alla notorietà senza guadagnartela. Loro escono da là convinti di essere famosi, e magari lo sono, per un anno o due; dieci su mille vanno bene, sono anche bravi, non nascondo ogni tanto di averli seguiti in tv, ma gli altri 990 mi preoccupano, usati, bruciati e gettati via dal sistema! Non voglio fare discorsi moralistici, per carità, ma secondo me tutto questo confonde chi vuole fare teatro o cinema. Nella testa scatta un meccanismo che dice: “con una simile occasione televisiva io perdo il mio tempo a studiare, magari in un teatrino sfigato di provincia??”. Pensano “…ma che lo faccio a fare…”, e non capiscono che la fatica, lo studio, che pure fanno in quelle circostanze, in questo o quello show, è funzionale all’apparecchio televisivo, perché non sono nient’altro che strumenti in mano a lobby più grandi di loro.

E’ che spesso non se ne ha la consapevolezza. Si è ingenui, presi solo dalla voglia di fare, di apparire e di esserci, trascurando tutto quello che sta attorno…

Infatti. Se si è consci di essere uno strumento e si ha questa consapevolezza allora va bene, si può anche tentare, perché no… Il problema è che il 90% dei ragazzi non la hanno purtroppo, e questo mi dispiace, perché capisco che è un’occasione ghiotta per tanti. Tutti pensano che “uscendo di là… chissà, ho talento, magari mi chiamano, è fatta…”. Non è per nulla fatta!! Mai. Il concetto del “fatalismo” nel successo non gli viene insegnato, ti rendi conto di quale follia è?! Si entra, si è famosi, e vai con gadgets, fan club, sorrisi, foto. Bisogna sempre ricordare che per fare un mestiere come questo ci vuole fatica, non si arriva dopo quattro passaggi in televisione; ci hanno fatto perfino un programma televisivo sulle meteore, su quelli che appaiono e poi spariscono. Dunque è necessario sapere che si cammina in un campo minato.

Torniamo a te. Oltre che con Proietti hai lavorato in teatro anche con altri mostri sacri; nel tuo curriculum leggo Patrick Rossi Gastaldi, Giulio Brogi, Anna Mazzamauro. Raccontaci qualche dettaglio in più…

Con Gigi portammo in scena diversi spettacoli; uno di quelli che ricordo particolarmente era una specie di “Fame” teatrale, nel quale veniva messa in scena proprio la nostra vera vita in un anno di corso con lui. Fu portato al Festival di Todi registrando il tutto esaurito, e successivamente partimmo per una tournèe trionfale in varie parti d’Italia. In questa “storia della nostra scuola” io facevo ben sei ruoli diversi, cosa che, guarda caso, mi capita spesso; pensa che l’estate scorsa ho preso parte ad una rappresentazione de “Il Decamerone” al Teatro di Ostia Antica, e anche in quell’occasione mi sono trovato ad interpretare quattro personaggi. Ripenso alla meticolosità di Proietti nelle prove, o di Foà e Panelli a lezione, anche loro miei insegnanti nel laboratorio; una meticolosità che arrivava fino alla singola battuta, al minimo respiro. In quelle circostanze ti rendi conto di come nulla sia casuale nella grandezza di un attore e quindi, per tornare al discorso di prima, di come siano necessari anni e anni di approfondimento e di studio. Quanto ad Anna Mazzamauro, con lei ho interpretato il musical “Victor Victoria”; fu la mia prima tournèe di lungo percorso, dove arrivammo a fare quasi 100 repliche nell’arco di qualche mese. Fu per me un’esperienza devastante se ripenso alla fatica che si faceva. La storia non traeva spunto dal film americano, ma dalla sua versione originale tedesca, molto cupa, in cui la protagonista finisce ammazzata dalle SS; il musical ha privilegiato l’atmosfera del “Kabaret” berlinese, nel periodo della dittatura nazista. Imparai tutto ciò che c’era da sapere su una tournèe: se pensi che alla fine del lavoro eravamo rimasti in 3 attori principali su 5 che ne erano partiti, perché due se n’erano andati, puoi capire le innumerevoli difficoltà produttive di uno spettacolo del genere. Finita la tournèe non ho voluto fare nient’altro per circa un anno, tanto rimasi scosso dalla durezza dell’esperienza, e ora, con il senno di poi, sono giunto a considerare “Victor Victoria” come il mio “militare professionale”; è stata una di quelle volte che capitano a tutti noi e in cui si va in crisi, si pensa: “…ma no, forse non è il caso di continuare…”. Anna faceva la parte di Giuliette; io invece interpretavo il segretario dell’uomo che lei sposa, e che poi gli confessa il suo amore.

Tu sei effettivamente partito dal teatro ma negli ultimi tempi hai trovato grandi soddisfazioni anche al cinema ed in televisione, al fianco di Marina Massironi in “Quasi Quasi” o con Enrico Montesano ne “L’ispettore Giusti”. Che opinione hai in merito al grande investimento su fiction a breve e lunga serialità effettuato dalle reti nazionali in questi ultimi anni? Pensi che lo sviluppo di questo settore sia importante? Consente veramente agli attori di sfruttare nuovi spazi per esprimersi?

Partiamo da una premessa: secondo me le fiction non riproducono la realtà, ma la scimmiottano; e dunque ogni scimmiottamento è di per sé brutto. Non c’è la necessità di creare, di inventarsi delle storie, come pure avviene nel cinema, ma solo quella di riprodurre in modo pedissequo e noioso la realtà. Alla fiction tradizionale si aggiunge poi la soap-opera la quale, sempre a mio parere, non è altro che un fotoromanzo cartaceo trasferito in tv. Gli attori di fotoromanzi erano straordinari, pensa alla decennale tradizione di “Grand Hotel”, ma erano un genere, una tipologia, e non pretendevano di essere altro. Come dire… c’era Virna Lisi e poi c’era l’attrice di fotoromanzi. Ora avviene uno strano equivoco, si registra tanta confusione, in uno “scambio di ruoli” che inevitabilmente finisce per penalizzare la qualità. Se pensiamo che Hitchock diceva di se stesso “io faccio solo entertainment”,  ci rendiamo conto di quale modestia e umiltà avesse. Bisogna imparare a dare il giusto peso alle soap-opera e alla fiction in generale; spesso e volentieri ci sono dei grandissimi attori, ma non hai nemmeno modo di apprezzarli, perché il meccanismo di produzione di queste serie non te lo permette. A volte ho come l’impressione che nella fiction non ci sia modo di essere “bravi”, e lo schermo televisivo livelli in maniera abbastanza uniforme la resa artistica degli interpreti. Io ho preso parte a quattro fiction, anche importanti, e ti confesso che non sono fiero di nulla; quando le rivedo mi sento al 40% delle mie potenzialità, perché comunque le circostanze non ti consentono di fare di più. La velocità, il ritmo, la sindrome del “buona la prima!”, credo limitino parecchio anche i più talentuosi. Intendiamoci, io sono contento che ci sia tutto questo lavoro, tanto nuovo spazio per attori emergenti, e non dobbiamo assolutamente lamentarcene; ma è necessario essere consapevoli che la qualità sta da un’altra parte. Tutto qui. La consapevolezza è importantissima in questo lavoro, ne abbiamo parlato prima e lo ripeto ora con maggiore forza.

Sei un grande appassionato di cinema, tanto da vantare a casa tua una collezione infinita di videocassette della più diversa specie e provenienza. Da cosa deriva questa tua foga di collezionismo e soprattutto quale regista ami particolarmente?

Sono un folle appassionato del regista cinese Ang Lee, noto recentemente per il film “La tigre e il dragone”, che ha avuto un buon successo ai botteghini. Ho tutta la sua filmografia, e se devo essere sincero non so per quale motivo io sia così legato a lui; forse per l’estrema cura che mette nella psicologia dei suoi personaggi, per come entra dentro le vicissitudini familiari. Apprezzo moltissimo anche Woody Allen. Quanto alla mia passione per il cinema, devi sapere che fin da piccolissimo amavo andare al cinema; mia madre ancora oggi mi racconta di come spessissimo la accompagnassi a vedere i film più disparati. La passione è diventata poi un lavoro, perché andare al cinema, o a teatro, e vedere, osservare, capire, studiare gli altri, diventa una parte complementare necessaria nel lavoro attoriale. Come uno scrittore prima di esserlo si forma con la lettura, così gli attori non debbono ignorare ciò che viene fatto attorno a loro. E quindi è necessario andare a teatro e al cinema, e allenare i nostri occhi… Ci sono attrici come Julianne Moore, per dire un nome anche recente, che sono proprio da studiare per alcune loro interpretazioni. Le televendite sono diverse da un film di Soldini, per fare un esempio banale; ma per essere presi al casting del film, bisognerà colpire il regista con una certa sensibilità, che va formata anche attraverso l’ascolto e la visione di altri attori e di altre opere. Altrimenti andiamo a fare i testimonials per le televendite.

“Quasi quasi” (2002) – la locandina del film

Prima ho citato “Quasi Quasi”, film uscito nei cinema lo scorso anno dove interpreti la parte di un omosessuale che alla fine si innamorerà della moglie del suo compagno defunto…

Pensa che il primo provino lo feci per un ruolo secondario nel film, e venni preso; da li mi chiamarono a fare da spalla nelle audizioni per gli aspiranti protagonisti. Dopo qualche giorno venni a sapere che pensavano a me per il ruolo principale a fianco di Marina Massironi, e mi proposero la parte. Da quel giorno sino alle riprese effettive del film intercorse all’incirca un mesetto, che servì al regista per convincere la produttrice ad accettare la mia scrittura, in quanto diffidente verso un nome come il mio che non aveva richiamo pubblicitario. Ho girato le scene del film sempre con una strana sensazione, direi ambivalente: da una parte mi sentivo neofita, visto il fatto che un ruolo da protagonista in un film cinematografico non mi era mai capitato; dall’altro mi sentivo comunque sicuro del fatto mio, dato che si è trattata di un’occasione arrivata certo non a vent’anni, ma dopo un bel bagaglio d’esperienza. Il film è stato distribuito dalla Medusa, e ha tutto sommato riscosso un accoglienza soddisfacente, nonostante la totale assenza di promozione. Il fatto è che qui ci addentriamo nei meandri poco felici del cinema italiano; infatti nonostante il successo di quei tre o quattro film all’anno, vedi Muccino o Benigni, c’è tutto un sottobosco di prodotti, anche ben realizzati, che però non vengono assolutamente considerati né a volte pubblicizzati. Così che il mercato ne risente, e con esso anche lo sviluppo di tutto il settore cinematografico.

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