Il laboratorio dello scriba. Per Guido Garufi (seconda parte)

Volendo seguire un percorso cronologico tra le raccolte, fin da Hortus il discorso poetico di Garufi ha sempre privilegiato, secondo le parole stesse dell’autore, “suggestioni (indirette) di area inglese…di ordine argomentativo più che <pittoriche-visive>”; e la metafora dell’orto-giardino come cerchio chiuso, ripetizione, ossessione è riscontrabile dal punto di vista formale ne “l’insistenza del polisindeto, la ripetizione dei gerundi, alcuni processi di enumerazione mai rapida, ma sempre “ciclica” e lenta”. Elementi che si possono rintracciare anche nel testo che qui riporto:

 

– Smettila, non serve a niente –
Ora sì che posso dirti queste cose
e poi – non ti inquietare più –
Ma qui dove le foglie non leniscono il dolore
e il giorno passa trascolorando
e nella piazza sciogliendosi la pioggia
e un poco dileguandosi i tremori
dell’attesa delle albe e delle
notti senza sonno.
Ora sì che posso dirti – non piangere più per loro –
Qualche rapida occhiata in giù
per i canali limacciosi, senza fondo,
ed una pena amara, indicibile,
che serpeggia ancora sopra questi lastricati,
tra i passi i pantani
nel mezzo straziante dei sospiri…

 

La poesia per Garufi si dà proprio nel tentativo di evasione dal circolo ossessivo, nella ricerca di un varco (“Era un male disvelato che a tratti s’apriva”, sempre in Hortus), delle “accensioni” misteriose (ed escatologiche) di Montale”, ma anche di un dialogo, di una relazione, che in Conversazione presunta diviene un interloquire con una proiezione del proprio io, la metafora ossessiva dell’ombra:

 

[…] tu offuscata voce
energia celata dietro gli occhi
mi dici la tua presenza grande
esplori la mia impazienza
come la talpa la buca
occupata e sigillata da un mistero…

…volto che volgi luce
intermittente nella fitta angoscia
della sera.

Qui solo passi e tracce
con una memoria abulica
ma attiva se suoni d’improvviso
alla porta e mi richiami
con la voce antica ed infantile.

Ora posso vederti
posso sopportarti di più
e di più ascoltarti oltre
il limite prima invalicabile…

Non un buco una strettoia
non la porta o il pertugio
ma la dilatazione libera
nella notte e nel giorno […]

 

Torna la dimensione del sequestro in una pronuncia spesso più piana, un linguaggio più colloquiale:

 

Stavo leggendo il processo di Kafka,
soffrendo di eccessiva proiezione
mi sentivo in colpa anch’io.
Ma la colpa o il destino è un altro,
non appartiene al processo: procedono ab initio
a piccoli passi ci precedono.
Così ho chiuso il libro,
inventando ipotesi meno funeste e accerchianti
dell’orto concluso.
Ma è davvero difficile uscire da quella ipoteca
così realistica, se non fosse per un piccolo margine
che sfugge a qualsiasi punizione.

 

Anche in Conversazione presunta Garufi si conferma leopardianamente poeta dell’interrogazione e dell’indefinito, come nei due esempi che riporto di seguito, da confrontare con gli esiti dell’ultima raccolta, Fratelli, dove evidenzieremo la progressione musicale del dettato:

 

Era inconsistenza o intermittenza
il mio bagliore nell’hortus?
Il tuo era provvisorietà,
discorso con l’alter, ricerca del
pertugio nel circolo vizioso.
Ma poi forse tentativo di uscirne
da sola o insieme: tutto tentammo
e non solo in quest’ultima estate,
ché molti inverni son passati
da quando è cominciato il nostro viaggio.

 

Dentro o fuori, all’aperto o al chiuso
non era altro che esercizio
varianti stilistiche di un unico tema.
Travalicare il limite era speranza:
ora pro me, ma la preghiera si spezzava
ogni volta. Ho resistito
di giorno in giorno, mi sono appressato ai circoli
e tutto si sconnette e si disperde,
ma si riconnette per me, ogni volta,
dentro o fuori.

 

Davvero notevole, in quest’ultimo esempio, la suggestione evocativa nella rotondità, circolarità del testo.
Siamo nei territori della “poesia della vita”, se Luzi nella prefazione a Lo scriba e l’angelo parlò di “concrezione di vita e scrittura” o se lo stesso autore ha riportato, nella nota a Conversazione presunta: “Questo non detto e non pubblico, che è la propria vita, è il fondamento di ogni altra lettera e dell’unico libro che l’autore sempre scrive. In questo modo ciò che appare agli altri non è che un canzoniere minore, un’ombra o una conversazione presunta durante il viaggio della scrittura e quest’ultima non avrà la velleità di indicare dei significati, ma unicamente senso e direzione, magari tramite un “rumore di fondo”, un suono che sia “figura” di chi scrive e di una visione spesso interrotta o intermittente del mondo”. Si ripresenta, dunque, la poetica dell’indefinito: le intermittenze, le luci fioche, sono la risposta alla domanda di senso dello scriba, da confrontare con lo scriba sereniano di Un posto di vacanza: Garufi si sporge sul ciglio del nichilismo sereniano, del vuoto, della “terra desolata” di Eliot.

E se a partire dal Canzoniere minore l’autore prediligerà un dettato prosastico non privo di aperture melodiche, la via d’uscita dal sequestro si configura nel rimando allegorico dell’angelo “che richiama alla libertà dal giogo dei poteri, forse dal giogo stesso della vita, tramite la prassi silente e per così dire “archeologica” dello scriba (inteso come discorso del Principio, perlustrazione attenta di fossili scaturigini)” (Salvioni-Tartaglia):

 

[…] Entra tu vento e spazza questo vuoto
suscita Angelo un bagliore di luce
sulla fredda città sul paese di automi
di folle meccaniche di secca polvere
sparsa tra le vie nelle case chiuse…

 

(Torna parola torna al tuo fragore
al tuo chiasso improvviso rompi
la congiura del silenzio la falsa mestizia
dei sedicenti vivi, allontanali Angelo sterminatore)
Con timidezza e con pietà
la lettera brilla dalla pagina
con l’augurio di una voce impossibile
lascia il segno lo scriba.

 

Una poetica dell’indefinito e la celebrazione drammatica dell’autobiografia, tipica di Luzi, che preannunciano il culmine della resa musicale di Garufi in Fratelli. Il polo sarà ancora quello della rimembranza e del colloquio eletto, dove la parola quotidiana, né quella della cronaca, né quella declamatoria e attoriale, mantiene il contatto con i presenti e i propri cari assenti, ma convocati dalla poesia, come esplicitato in due passi di Filigrane: ”…l’ipotesi che solamente la parola poetica…sia quella che restituisca al nostro stesso pensiero un surplus, una qualità in più, fornendole quell’intuizione, quella previsione che altrimenti manca nella lingua comunicativa di tutti i giorni…Questa esperienza io ho tradotto in liquidità della parola, in accensioni verbali che a volte hanno preso il posto dello scritto, dico del testo poetico, e questa lingua, dimessa e apparentemente esiliata, in verità è stata la protagonista e probabilmente anche il Medium o il Ponte per la relazione tra il presente e il passato, tra chi c’è e chi sembrava perduto o assente. Ma non lo era”.

Dicevamo di come nella poesia di Garufi non fosse mai presente la parola “fede”; tuttavia la sua lirica assurge a un ruolo filosofico (anche di “farmaco dell’anima”), se non di vera e propria “preghiera laica”: “Mi chiedo se la luce sparata che da quel fondo giunge non sia un messaggio, una preghiera senza lingua…” (Filigrane). Il poeta maceratese non cessa mai, al contrario, di ribadire la propria fedeltà agli scribi del passato, dando vita a un’opera che si inscrive a giusto titolo nella linea creaturale della poesia contemporanea, una linea “incarnata”, apparentemente metafisica ma anche profondamente terrestre” (Salvioni-Tartaglia): “…fin dall’inizio usavo un piccolo stilo per tradurre un po’ di vita sulla carta, perché questa parlasse non solo per me, ma in vece vostra. Guarda allora questo libro che non è un oggetto inanimato, è carne semmai e forse anche sangue, quello che ancora scorre in me e negli altri…perchè – lo sai – c’è altro sole e altra aria oltre le pagine immobili, ma da queste esce la vita, e solo da queste prende forma” (Filigrane). E ancora in Fratelli:

 

[…] Ma dove sei tu mia cara ombra
e tu mutante fiore del deserto
tu proprizia speranza che sul mare
dal dirupo t’affacci?
E sfolgora da lontano, dal fondo della campagna
un libro più umano una parola più vicina
o prossima alla vita…

Rompo l’assedio del pensiero
poiché per questo siamo nati
come gli scribi che attingono
e pescano nel tempo, cose antiche e nuove…

 

In Fratelli più che in ogni altra sua opera Garufi eleva il proprio canto a ricomporre ciò che è disperso:

 

Sembra primavera questa aria gentile
di fresca natalità di miracolo che intorno
pare spandersi e giungere là in quella frontiera

che i colori riverbera e i ricordi di te rimanda
in questa perplessa selva di simboli e varianti
dell’anima o di quella che così chiamano…

Ma tu non fuggire, canto, non abbandonare
la forza occulta che tutto ricompone
tra dolore e gioia alla ricerca di altre sponde

non disperderti, torna sostanza vera
delle cose dalle quali nasci e ti incammini
e dai parola a questa voce
che dall’esilio grida più forte, più forte
e ancora a stento ti legge e lo dichiara.

 

Siamo davvero all’apice delle possibilità melodiche di una poesia che nell’inedito che presento in conclusione giunge ad accenti sinfonici straordinariamente evocativi:

 

INNO DELLA DISTANZA

Per Mario Luzi e Remo Pagnanelli

Non c’è tempo – insisti- con c’è più tempo
poiché la parola è chiusa, gira vertiginosamente
su se stessa, non si espande non s’alza verso il cielo
non ha orizzonte o meta, somiglia a quei cristalli
che pendono laggiù, tra le foglie, nel freddo:
è una voce raggelata.
Ma quello il cui cuore tu credevi in ascolto
proprio quello, è lui che da tempo
ha chiuso il libro, di altro non si parla
di altro non si spera che dal foglio esca
se non questa nebbia di uomini afasici
incontri quotidiani, cronologie senza anima
dentro la propria voluta, malinconica,
inflessibile, dolorosa , ripetizione dell’esistere…
E qui mi raggiungono i ricordi di compagni
che allegri cantavano sul viale o sulle piazze
inni o melodie che i campi descrivevano
cogliendone lo spirito, o l’alfabeto delle nuvole
o il movimento dei fiori.
Ma dove sono? Non sulla spiaggia
non all’uscita, non alla partenza o all’ approdo,
e la loro ombra o l’eco di costoro dov’è,
m’interrogo. Nella domanda viva
mi torco , mi chiedo se questo esercizio discorde
dello scriba, se questa distanza che flagella
se questa muta folla d’automi che Eliot chiamò “impagliati”,
d’un tratto si rivolti, risorga nel corpo, nella parola,
nella felice lettera del fiato.
Scorre il fiume come la vita mobile…
ne trascrisse il divino Keats
nella sua Urna greca dove il tempo
è armonioso ed eterno.
E’ notte , ecco la pallida luna,
la graziosa lampada degli scribi,
bussola fedele e perpetua…
Ed ecco, esplode l’aria tra i libri
il vento è tra gli scaffali alza
le pagine che sulla vita si versano
con forza o con dolcezza
e con fragore misterioso alla vita rimandano
e questa alla pagina.

 

Se ciò che è perfetto è, per etimologia, nient’altro che ciò che trova il proprio compimento, Garufi rinsalda nella musicalità dei suoi versi in “numeri perfetti” il laboratorio dello scriba, il suo canto di ritorno.

Guido Garufi
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