Noi che tignemmo il mondo di sanguigno

da Con Dante in esilio (Edizioni Ares, 2020) di Nicola Bultrini

 

<Tra la primavera e l’autunno del 1915 Giuseppe Reina è un giovane tenente del 130° Reggimento di Fanteria della brigata Perugia del Regio Esercito. Combatte sul fronte isontino i primi terribili scontri della Grande Guerra degli italiani. Due volte ferito e pluridecorato, si guadagna il grado di Capitano proprio sul fronte del Carso. A conflitto ancora in corso decide di scrivere le sue memorie di quei giorni e di farlo con uno stile asciutto, comunque commosso e appassionato. Le immagini delle trincee del Carso sono sangue, dolore e polvere da sparo, fango rosso come il sangue, che si attacca alle divise lacere e quindi ancora sangue. C’è certamente un’idea retorica nella parole di Reina, ma è solo un’idea, mentre la voce si mantiene fedele alla crudezza dei fatti, tanto che la Censura proibì per due anni la pubblicazione del diario. Reina scrive o tenta di scrivere né più né meno che la verità. La verità di una realtà difficilmente accettabile dal senso comune di chi la guerra la legge solo nelle artefatte cronache dei giornali; ma la sua preoccupazione è solo una, che le sue pagine siano sincere, ingenuamente e appasonatamente sincere. Il titolo del romanzo/diario di Reina è Noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ovvero il novantesimo verso del Canto V dell’Inferno dantesco, quello di Paolo e Francesca. E’ lo stesso autore a spiegare nell’introduzione che il titolo pretenzioso deriva dalla lirica di Dante, con cui apparentemente non ha nulla a che fare ma con il quale, invece, secondo lui, condivide una rispondenza ideale. “Ovunque si combatte – scrive Reina – si sanguina e si muore sono uomini. Da tutto il sangue germinerà un’umanità rinnovata, perché avrà conosciuto compiutamente il dolore, la passione e la morte”.
A quel tempo la retorica a favore dell’adesione alla guerra sfornava motti e incitamenti senza posa. La propaganda aveva soffiato sull’immaginario collettivo un’infinità di espressioni, tutte altisonanti, di grande effetto mediatico. A Reina certamente non mancavano spunti per descrivere, in un titolo efficace, la tempesta delle sue memorie. Invece sceglie un’immagine inusuale, quella data da Dante per descrivere la storia dei giovani amanti morti per il loro amore. Più di qualsiasi enfatico slogan, più di qualsiasi immagine retorica, la Divina Commedia è la matrice per decodificare in un lampo di magnesio una realtà tanto assoluta e sconvolgente.

Nicola Bultrini

Un altro soldato che in quel medesimo contesto fece ricorso alla poesia per tradurre una realtà straniante e inafferrabile, fu Giuseppe Ungaretti. Le poesie del Porto sepolto – la sua prima raccolta pubblicata in 80 esemplari, nel 1916 a guerra in corso – furono scritte letteralmente in trincea, in prima linea, quasi in forma di diario. Foglietti sparsi, “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute…”, stipati nel tascapane, raccoglievano una sorta di intimo, giornaliero esame di coscienza, in cui il linguaggio si poneva in equilibrio tra l’annullamento della parola e la sua ricostruzione. La desolazione della realtà si scontrava con la ricerca dell’assoluto, divenendo riscatto vitale all’annullamento dell’uomo nel suo estremo, la guerra. La parola-immagine finisce per riappropriarsi della sua carica di significati e suggestioni, rimane rarefatta, senza quasi punteggiatura, ben lontana dalla poesia patriottica. Del resto, al fronte non c’è tempo per la retorica; ogni parola deve farsi essenziale, assoluta.>

 

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